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Confrontiamo l’albero altissimo, sul quale, secondo il De ave Phoenice (vv. 39-42) menzionato poco fa, la Fenice siede in attesa di intonare il suo canto al sole nascente, con il mitico frassino Yggdrasill della mitologia nordica: “…Un albero alto, bagnato di bianca brina;/ di là provengono le rugiade che cadono nelle valli/ e sempre verde sta presso la fonte di Urdh” (Völuspá, str. 19).
Questo “albero alto” è “l’immagine dell’Albero Cosmico, il frassino Yggdrasill, che sta al centro dell’universo e lo sorregge: i suoi rami sempreverdi (simboleggianti cioè l’eternità) si stendono su tutto il mondo e coprono il cielo. Esso ha un’aquila appollaiata sui rami, che a sua volta scambia continuamente cattive parole con il serpente Nidhhöggr, che continuamente corrode le radici dell’albero (…) La connessione dell’aquila con l’Albero Cosmico appare confermata (…) anche là dove si parla di un’aquila che si trova sopra la Valhalla, dimora di Odino, nella stessa zona dove cresce l’albero Léradhr, da identificare con l’Albero Cosmico. L’aquila è dunque un uccello sacro” (Chiesa Isnardi, 1996, pp. 548-549).
Il concetto di Albero Cosmico o Asse del Mondo (Axis Mundi), rappresentato da Yggdrasill, è centrale nella mitologia nordica: “L’Albero Cosmico riassume in sé i concetti di potenza, di sapienza divina e di sacralità (…) La sua possanza è la forza vitale del cosmo: quando esso vacillerà, si avrà indizio sicuro dell’imminente fine del mondo. Simbolo dei tre strati spaziali dell’essere (inferi, terra e cielo) e della loro interrelazione, l’Albero Cosmico assomma in sé anche i tre momenti fondamentali del tempo: passato, presente, futuro” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 533).
Inoltre, “In numerose tradizioni primordiali l’Albero Cosmico, esprimente la sacralità stessa del mondo, la sua fecondità e la sua perennità, ha relazione con le idee di creazione, di fecondità e di iniziazione (…) Esso ci si presenta sempre come il ricettacolo della vita e il signore dei destini” (Eliade, 1983, p. 294).
Un concetto simile si ritrova tra i Sassoni, che “adoravano come divinità un grande tronco d’albero, chiamandolo nella loro lingua madre Irminsul, che in latino significa colonna universale, come se sostenesse il tutto (…) La colonna di straordinaria altezza, che secondo Ebbone (III, 1) si ergeva nel santuario dell’isola di Wolin, esprimeva la stessa credenza che circondava l’Irminsul: il mondo si reggeva su un sostegno sacro” (Modzelewski, 2008, p. 444). Quanto a Wolin, è un’isola baltica davanti alla foce del fiume Oder, nella Polonia settentrionale.
Tornando all’aquila appollaiata sui rami dell’Albero Cosmico, osserviamo che, secondo il passo di Erodoto letto in precedenza riguardante la Fenice egizia, “la sua forma e le sue dimensioni sono molto simili a quelle di un’aquila”. Inoltre in alcune mitologie la Fenice è paragonata a un uccello rapace, e sia l’aquila che il falco (pensiamo al Turul della mitologia ungherese) ben corrispondono a questa indicazione.
Insomma, il paragone tra l’aquila appollaiata sui rami del frassino Yggdrasill e la Fenice di Lattanzio, sulla cima del suo altissimo albero, evidenzia analogie molto significative.
Quanto al gallo, accostabile al Feng, il “gallo augusto” cinese, nella mitologia nordica gli animali appollaiati sui rami dell’Albero Cosmico sono “l’aquila o il gallo, che per la sua abitudine di segnalare tempestivamente l’arrivo dell’alba è considerato annunciatore della luce e messaggero della vittoria sulle influenze nefaste della notte. Nella sua funzione di animale che percepisce con immediatezza la luce solare e divina è perciò il corrispettivo dell’aquila, come mostra la figura del gallo splendente d’oro di nome Vídhófnir (…) appollaiato sull’albero detto Mímameidhr, corrispettivo dell’Albero Cosmico (…). Le fonti ricordano anche un gallo dorato di nome Gullinkambi (ma si tratta verosimilmente dello stesso) che canta vicino alle dimore degli Asi; di esso è detto che desterà i morti di Odino affinché l’ultimo giorno combattano contro le forze del male” (Chiesa Isnardi 1996, pp. 549-550).
Qui osserviamo da un lato che Gullinkambi significa “cresta d’oro” (Mastrelli 1982, p. 313) – il che corrisponde alla “radiata corona” (De ave Ph., v. 139) sul capo della Fenice, che Lattanzio paragona alla testa splendente di Apollo (v. 140) – e dall’altro che il gallo Vidhófnir, “il quale, splendente, sta sui rami dell’albero di Mimir” (Svipdgasmál, str. 24), ha nella coda una “penna lucente”, considerata addirittura un gioiello da “portare in uno scrigno” (Svipdgasmál, str. 29) e quindi sembra accostabile alla preziosa coda della Fenice, che “si diparte dal corpo tutta screziata d’oro/ misto a porpora rosseggiante” (De ave Ph., 131-132).
A questo punto, anche l’enigmatica affermazione secondo cui “nel corpo di Vidhófnir vi sono due ali arrostite” (Svipdgasmál, str. 18), sembra trovare una spiegazione logica proprio nel contesto della sua identificazione con la Fenice. Infatti, se quest’ultima rinasce dalle proprie ceneri dopo essere stata bruciata, è ragionevole supporre che le sue ali precedenti, consumate dal fuoco, abbiano lasciato una traccia nel suo nuovo corpo.
Inoltre, sempre nella mitologia nordica, “Un altro gallo color rosso fuliggine canta sottoterra nel regno dei morti. Il gallo si presenta dunque (…) anche come animale collegato al regno dei morti, cioè alle tenebre di cui è dominatore perché ne conosce i segreti” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 550).
In effetti, spigolando nei miti nordici, si trova che il protagonista di un singolare episodio di morte e rinascita, a cavallo tra questo e l’altro mondo, è proprio un gallo: lo scrittore danese Sassone Grammatico (c. 1150 – c. 1220), nel narrare un’avventura dell’eroe Hadingus, che era stato improvvisamente trasportato sottoterra nel mondo dell’aldilà, racconta che qui a un certo punto una donna “mozzò la testa a un gallo, che portava con sé, e la gettò oltre la cinta delle mura; e subito l’uccello, resuscitato, con un canto squillante diede prova di aver effettivamente riacquistato il soffio vitale (Gesta Danorum I, VIII, 14). Per inciso, ci tenta l’idea di accostare quest’ultima immagine alle ultime parole pronunciate da Socrate prima di morire, che a questo punto sembrano racchiudere nuovi, suggestivi significati: “O Critone, disse, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate” (Plat. Fedone, 118a).
Morte e resurrezione, ossia la ciclicità della vita: ritorna il tema dominante del mito che stiamo esaminando, per di più legato a un gallo, uccello che, come abbiamo appena visto, nella mitologia nordica trova significativi punti di contatto proprio con quella Fenice che, secondo Lattanzio, tutte le mattine canta per annunciare il ritorno del sole.
L’ultimo epigono di questi mitici volatili, aquile o galli che fossero, potrebbe essere il Gallo di Ramperto, un gallo dorato di epoca medioevale, risalente all’820 d.C., che per mille anni ha adornato la sommità del campanile della chiesa dei Santi Faustino e Giovita a Brescia, ma che ora, sostituito da una copia sulla cima del campanile, si gode un meritato riposo nell’attiguo museo di Santa Giulia.
L’immagine dell’uccello mitico sull’albero sacro si ritrova anche nella mitologia ungherese, dove il Turul, menzionato in precedenza per il suo legame con la regalità, “sta appollaiato sull’Albero della Vita che collega la terra con gli inferi e i cieli” (Rady, 2000, p. 12).
Inoltre la mitologia persiana preislamica menziona un uccello sacro, chiamato Simurgh (Fig. 2), il quale visse per 1700 anni prima di gettarsi tra le fiamme e si appollaiò sull’Albero Cosmico della tradizione persiana, chiamato Gaokerena, che due pesci proteggevano dall’attacco di una rana malvagia (Farmanyan&Mickaelian, 2016, p. 248). Essa dunque è la corrispondente del serpente Nidhhöggr, “che continuamente corrode le radici dell’albero”. Di una variante di questo uccello, chiamato Huma, anch’esso presente nei miti iranici con aspetti che lo rendono molto simile alla Fenice, si dice che è sempre in volo e non si posa mai per terra: esso è il simbolo dell’Uzbekistan (Green, 2006).

Fig. 2. A sinistra: mosaico del Simurgh sulla facciata della Madrasa Nadir DivanBegi a Bukhara, Uzbekistan; a destra: l’emblema dell’Uzbekistan.
Inoltre, il Simurgh era così antico che assistette alla distruzione del mondo tre volte e, vivendo così a lungo, acquisì la conoscenza di tutte le epoche (Aro, 1976, p. 25). Per quanto riguarda il termine persiano sīmurğ, esso deriva dal medio persiano sēnmurw, a sua volta riconducibile all’avestico mərəγō Saēnō “l’uccello Saēna”, che originariamente si pensava fosse un rapace, probabilmente un’aquila, un falco o uno sparviero (Christensen, 1941, p. 66).
Notiamo ora che un altro albero mitico, abitato da personaggi accostabili agli strani frequentatori dell’Yggdrasill e del Gaokerena, si trova in un testo sumero: si tratta dell’albero Huluppu, nel quale “alla base il serpente che non conosce incantesimo si era fatto il nido, nella chioma l’uccello Zu aveva messo i piccoli, in mezzo Lilith si era costruita una casa” (Kramer, 1938, p. 5).
Qui si nota immediatamente la corrispondenza, da un lato, tra gli uccelli che si trovano alle rispettive cime dei due alberi, e dall’altro tra i due serpenti alle loro basi. Inoltre, la somiglianza tra il nome di Zu, l’uccello sumero sull’albero di Huluppu, e Zi, il nome della stella polare in Cina, appare curiosa, soprattutto considerando che il Feng, o Fenice cinese, è spesso associato al drago, anche nelle immagini (Fig. 3). Per inciso, è anche curioso che i nomi dei due principi maschile e femminile della filosofia cinese, yang e yin, sembrino essere simili alle radici delle parole che in greco indicano rispettivamente uomo e donna e che si trovano appaiate in un verso di Omero: anēr ēdè gunē (“uomo e donna”, ἀνὴρἠδὲγυνή, Od. 6, 184). Ma colpisce anche il fatto che la parola che in cinese indica il re, wang, sia pressoché identica all’omerico anax (“capo, signore”, ἄναξ, Il. 1, 7) e al miceneo wanax, che hanno lo stesso significato.
Tutto ciò sembrerebbe coerente con l’ipotesi di Christopher Beckwith riguardo ad influenze indoeuropee sulla Cina antica, in particolare sulla dinastia Shang (Beckwith 2011). A questo punto, la singolare assonanza tra il cinese Feng e il greco Phoῖnix (Φοῖνιξ, Fenice) meriterebbe forse qualche approfondimento (considerando anche che di recente, come abbiamo visto in precedenza, è stata ipotizzata una relazione tra il nome greco della Fenice e quello del dio egizio Benu, due figure mitiche per certi versi paragonabili). Insomma, verrebbe quasi da sospettare che anche la somiglianza tra i loro nomi – Feng, Benu, Phoῖnix – possa non essere casuale, nonostante le distanze, sia spaziali che temporali, che separano queste tre civiltà.
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