Cleopatra e le altre, brevi rapporti tra maschi e femmine.

Era ancora presto per la cena, alla Casona dei miei amici sulla spiaggia, così continuai la passeggiata nel vicino parco sulla estrema punto della Magdalena, piccola penisola proiettata nella vastità del Mar Cantabrico.

Camminai ove possibile al limite delle rocce, volevo osservare, mentre ne udivo il sordo sciacquio giù di sotto, quell’acqua color inchiostro lenta, gonfia, che si infrangeva leggera ed ingannevole contro la scogliera. Di fronte, oltre l’isolotto con il faro, era pur l’Atlantico quel Mar Cantabrico, sempre un po’ inquieto battuto da venti impetuosi del nord-ovest. Il Palacio Real, ora Università degli Studi per studenti stranieri,dominava la scena.

Nell’ “atardecer” del giorno festivo, da quel punto estremo della penisola, con il vento addosso, mi voltai indietro la bahia di Santander. Attendevo, mancava poco, con lo scomparire del sole dietro le montagne, l’immenso incendio laggiù nel cielo sopra la città. Con lo spettacolo del tramonto che sempre mi stupisce, ovunque, mi godevo anche i gabbiani che volteggiavano eleganti e rapidissimi nel gettarsi sulla preda nascosta tra le onde.

Per rientrare, continuai scendendo sulla sinistra. Mi ricordavo dell’esistenza di certe tre caravelle, riproduzione esatta si diceva delle dimensioni e materiali delle originali nonché monumento del coraggio, dell’avventura e della scoperta.

Incontrai più gente di quanta non mi aspettassi. Alcuni guardavano in giù oltre una ringhiera. Avvicinandomi udii brontolii poderosi, non capivo. Oltre la ringhiera erano rocce rosse, sabbia, prato semi secco; poi un ruggito ansioso e terribile. Mimetizzata tra le rocce e la sabbia, dritta a fiutare l’aria, riconobbi l’arruffata criniera di un vero leone! Era sdraiato sul fianco come un re antico e ruggiva forte come chiamando imperiosamente  ……. Ma chi? Più in là, sullo scarno prato, dando le spalle, accucciata come una sfinge, il muso rivolto verso un’inferriata che bloccava una immaginaria via di fuga tra rocce ed oceano, stava pure la leonessa. Che menefreghista, ad ogni ruggire del Re, sbatteva la coda come a voler cacciare le mosche. Anzi, annoiata, il suo forte ruggito pareva dicesse: “ma lasciami stare!”

Scoprii dunque un piccolo zoo. Vi trovai un prato muschioso che scivolava dentro ad un laghetto artificiale. L’acqua plumbea era appena mossa da ombre scure che emettevano zampilli improvvisi. Lucide gobbe inanimate emergevano e scomparivano lentamente. Code o pinne con giravolte capricciose apparivano con un guizzo.

Finalmente un muso baffuto apparve a metà, starnutì, aspirò e scomparve di nuovo. Sinuosa la sua ombra, come un siluro riemerse là in fondo con un altro starnuto e così via ripetendosi. In quell’acqua cheta si divertivano sette o otto leoni di mare, otarie, foche grigie. Alcuni in gruppo stavano immobili sott’acqua ma in verticale a testa in giù o in diagonale, abbandonati in uno yoga profondo. Capitava che la virgola di una pinna impercettibile toccasse la mezza luna di una coda o di un muso a filo di un altro muso, quasi per trasmettersi misteriosi segnali fino alla fine del respiro. Sul prato vicino all’acqua, giaceva la molle forma di una otaria. Dal fondo spuntò alto, dritto e possente il suo maschio. La testa un po’ arruffata, buffo nel suo piatto passo traballante ma deciso raggiunse la femmina. Elastico si curvò per annusarla. Questa, muso contro muso, come incollata mollemente alzò il capo, il collo poi tutto il suo grande, gonfio corpo fino a formare con il maschio un vibrante alto triangolo. Per un minuto o eterno secondo fu un atto tenerissimo ed infinito. Finché  Antonio con un guizzo si staccò tuffandosi nell’acqua e Cleopatra si riabbandonò esausta sul prato.

Come accade in casi straordinari, non avevo con me la macchina fotografica. Ma forse con la tensione di scattare tutto in tempo non mi sarei tanto gustata la scenetta.

Un poco oltre su delle rocce a picco sull’Oceano un gruppo di piccoli pinguini. Irrigiditi nel loro frac ed in perfetto assetto sembravano attendere vanitosi gli scatti fotografici dei visitatori.

Altra ringhiera con gente curiosa. Che c’è ancora? Altre rocce di cemento imbiancato, profonde caverne, larghi ripiani che scendevano verso una zona d’acqua tra laghetto e fiumiciattolo. Qua e là erano sparse grosse sfere gialle. Sul piano più alto, quasi un trampolino, stava appiattito come e un trofeo di caccia un enorme orso bianco. In riposo assoluto, le zampe erano inerti, tranne una poggiata di fianco alla testa. Il bestione non rispondeva ad alcun richiamo ma l’occhio semichiuso era pronto a fare scattare la zampata.

Ritornai il giorno dopo equipaggiata di macchina fotografica, speravo in un altro bacio tra Cleopatra ed Antonio che non avvenne affatto. La coda della Leonessa ancora rifiutava il richiamo del suo Re. Invece potei ammirare in tutta la sua altezza quell’enorme orso bianco che si muoveva ciondolando melanconico come un clown. La poderosa figura sembrava cercasse un perché in quelle sfere gialle dal rumore sordo che si passava da una zampa all’altra. Mi intenerì la sua solitudine. Il suo guardiano mi disse che, da poco aveva sbranato la sua compagna.

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