(Taccuino, 1917)
In questo verso, tratto dalla lirica “In un momento”, Dino Campana condensa, con l’imperfetto, il tormentato amore per Sibilla Aleramo, durato per due sublimi e drammatici anni, dal 1916 al 1918. Per comprendere “il pazzo di Marradi”, occorre però partire dal suo animo, dalle sue ferite interiori, con la madre che gli preferiva il fratello minore, non trascurando la sua irrequietezza, che lo portò a fare tantissimi viaggi e molte esperienze lavorative. La prima silloge di Campana, i Canti Orfici, dove orfico equivale a misterioso, verrà pubblicata nel 1914; la lirica di cui sopra, è del 1917, raccolta nel Taccuino, mentre una seconda edizione con gli scritti precedenti e i successivi, confluirà nei Canti Orfici, editi da Vallecchi nel 1928. La poesia “In un momento” rivela, con il simbolismo della rosa, parola ripetuta undici volte, in un fremito, in una ossessione che parla di distacco, il “non potevo dimenticare”, e solo nella conclusione, in un verso epigrammatico, il poeta conclude: “E così dimenticammo le rose”. Superato il tormento? Forse in parte. In un sonetto, “Pace non cerco, guerra non sopporto”, che compare nei Canti Orfici del 1928, Campana si ispira, in modo preciso a Petrarca e al sonetto 134 del Canzoniere: “Pace non trovo, e non ho da far guerra”, ma l’atmosfera è molto diversa. Petrarca si crogiola nella sua accidia, nel suo immobilismo, nel suo compiacersi nel contemplare una sofferenza d’amore che è soprattutto fonte di ispirazione, mentre il poeta di Marradi è alla ricerca di un porto dove rigenerare l’anima inquieta: “Agogno/ La nebbia ed il silenzio in un gran porto”. Comprende anche che le sue aspirazioni sono velleitarie, se poco oltre aggiunge: “Sogno. La vita è triste ed io son solo”. Struggente è poi la conclusione: “O quando o quando in un mattino ardente/ L’anima mia si sveglierà nel sole/ Nel sole eterno, libera e fremente”. Gli anni sono passati, ma le cicatrici di un amore intenso e folle, lacerante, non sono guarite, se addirittura Campana scomoda Petrarca e il suo Canzoniere per spiccare il volo verso considerazioni lontane però da quelle del poeta aretino.
Certe considerazioni fanno riflettere! Quando si inizia il viaggio dell’Amore, non possiamo prevedere le incognite, le fermate, le interruzioni, a volte impreviste, anche dopo anni di convivenza… Su quest’ultimo registro si sviluppa anche la poco conosciuta relazione di Eugenio Montale, durata due anni, con la scrittrice americana Irma Brandeis, immortalata nelle Occasioni, col nome di Clizia, amore intenso, passionale, non passato inosservato alla convivente del poeta, poi sua moglie, Drusilla Tanzi (chiamata in molte liriche Mosca), che nel 1927 ospitava il poeta ligure a casa sua, che minacciò il suicidio per lui, per impedirgli di raggiungere Irma negli Stati Uniti. Nella lirica “Ho tanta fede in te”, nella raccolta postuma Altri versi, lo scrittore parla dell’illusione del rapporto costruito con Irma: “Ho tanta fede in te/ che durerà/ (è la sciocchezza che ti dissi un giorno) / …Ho tanta fede in me/ …che mi brucia;/ …chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere/ senz’accorgersi ch’era una rinascita.” Irma-Clizia, di origine ebraica, incontrerà per l’ultima volta il suo Eugenio nel 1938 e poi non farà più rientro in Europa, ma resteranno scampoli di rapporti nelle lettere successive, sempre fragili di parole e più labili (forse!) di sentimenti, epistole che si interromperanno nel 1981 (il poeta morirà nello stesso anno), con un addio, in un’ultima missiva: “Quando, come ci rivedremo?”.
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