
La versione italiana di uno studio di Felice Vinci pubblicato dalla rivista scientifica internazionale “Athens Journal of Mediterranean Studies”
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Introduzione
In questo articolo, esamineremo innanzitutto le caratteristiche attribuite alla Fenice – l’uccello mitologico dotato di straordinaria longevità e del potere di rinascere dopo la morte – in vari contesti storici e letterari del mondo antico, per poi approfondire l’associazione della sua figura con un grande albero, che, come vedremo, è identificabile con l’Albero Cosmico. Su questa base, svilupperemo l’ipotesi che dietro l’immagine della Fenice appollaiata sull’albero si nasconda una metafora astronomica riferita alla stella polare, che periodicamente “muore” e poi “rinasce” in ciascuna delle stelle che, una dopo l’altra, nel corso dei millenni si alternano nei pressi del polo celeste, in seguito ad un moto a trottola dell’asse terrestre, lentissimo ma continuo, che produce il fenomeno della precessione degli equinozi.
A tal fine, adotteremo una metodologia consistente in un nuovo esame critico di fonti attendibili, non solo classiche ma anche provenienti da altri contesti letterari e scientifici, confrontando ed esplorando analogie e somiglianze, ma anche enigmi ed anomalie. Infatti queste ultime, in particolare nell’ambito della mitologia, possono talvolta rivelare significati metaforici nascosti in grado di aprire nuovi orizzonti ermeneutici. È quanto abbiamo visto in un precedente articolo (Vinci, 2024a), dove abbiamo mostrato come anche dietro il segreto della prodigiosa forza di Sansone, legata ai suoi lunghi capelli non tagliati, sia nascosta una suggestiva metafora di un fenomeno astronomico. Inoltre, nel corso di questa indagine terremo sempre presente che, per affrontare adeguatamente temi come quello che stiamo trattando, “un approccio razionalistico è sterile senza lo sforzo di immergersi nella mentalità dei tempi e delle persone con cui abbiamo a che fare” (Ferri, 2010, p. 219).
Vorremmo altresì sottolineare che, data la novità dell’ipotesi qui proposta e considerando che questo particolare argomento potrebbe essere di interesse anche al di fuori del mondo accademico, abbiamo mirato alla massima chiarezza e leggibilità dell’articolo, anche a costo di ripetere talvolta alcuni concetti.
Questo articolo è organizzato in sette sezioni, inclusa la presente introduzione. La seconda sezione dà informazioni generali sulla figura e sulle caratteristiche della Fenice. La terza approfondisce lo stretto rapporto tra la Fenice ed un particolare albero, identificabile come l’Albero Cosmico o Albero del Mondo, su cui essa sta appollaiata. La quarta sviluppa l’ipotesi che la Fenice sia una metafora della successione ciclica di stelle che, una dopo l’altra, assumono la funzione di stella polare allorché vengono a trovarsi in prossimità del polo celeste. La quinta esplora la metafora nascosta dietro i perenni litigi tra l’aquila e il serpente, due animali che diverse mitologie associano all’Albero Cosmico, nonché i collegamenti con il mulino del cielo, i destini umani e i cicli cosmici. La sesta sviluppa l’ipotesi che alcune caratteristiche tradizionalmente attribuite alla Fenice possano essere state inizialmente ispirate dall’aspetto e dal comportamento di un uccello particolare, identificabile con l’urogallo. L’ultima sezione è dedicata alle osservazioni conclusive.
Generalità sulla Fenice
La Fenice è un mitico uccello, di cui in ogni epoca esiste un solo esemplare. Essa si rigenera ciclicamente morendo e risorgendo dalle proprie ceneri, e che con forme più o meno simili si ritrova in molte altre mitologie. Ha un aspetto simile a quello di un’aquila, e talvolta anche di un gallo, con cui essa condivide la vocazione canora, e la sua figura è associata al sole e ad un grande albero.
Ecco cosa ne dice lo storico greco Erodoto (c. 484 – c. 425 BC), che la cita allorché si sofferma sugli animali che si trovano in Egitto: “Esiste anche un altro uccello sacro, il cui nome è Fenice. Io stesso non l’ho mai visto, solo delle immagini, perché l’uccello arriva raramente in Egitto: una volta ogni cinquecento anni, come dicono gli abitanti di Eliopoli. Si dice che la Fenice arrivi quando muore il padre. Se l’immagine ne mostra realmente le dimensioni e l’aspetto, il piumaggio è in parte dorato e in parte rosso. La sua forma e le sue dimensioni sono molto simili a quelle di un’aquila. Quello che dicono che questo uccello riesce a fare mi sembra incredibile. Si racconta che, volando dall’Arabia al tempio del sole, porti con sé il padre avvolto nella mirra e lo seppellisca nel tempio del Sole” (Storie, 2, 73).
Ad ispirare la figura della Fenice greca potrebbe essere stato il Benu, un’antica divinità egizia legata al Sole, alla creazione e alla rinascita. Il Benu egizio era un essere autocreato che si diceva avesse avuto un ruolo nella creazione del mondo. Un suo titolo era “Colui che venne all’esistenza da solo” e il suo nome è legato al verbo egiziano wbn, che significa “sorgere nello splendore”. Il Benu compare anche sugli amuleti funerari a forma di scarabeo come simbolo di rinascita. Lo stesso nome “Fenice” potrebbe derivare da “Benu”, e la sua rinascita e il suo legame con il sole sono simili alle credenze sul Benu (Hart, 2005, p. 48). Poiché il Benu era un simbolo di rinascita, era associato a Osiride e veniva chiamato “Signore dei Giubilei”, un epiteto che si riferiva alla credenza che si rinnovasse periodicamente “come il sole che sorge all’alba” (Wilkinson, 2003, p. 212). Infatti, un epiteto frequentemente applicato al dio Sole è “colui che si autogenera”, e (…) nella letteratura classica si pone grande enfasi sulla generazione spontanea della Fenice e sulla sua stretta relazione con il sole (Van den Broek, 1972, p. 16).
Ma ora spostiamoci sulla letteratura latina, dove troviamo il passo che lo scrittore romano Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) dedica alla Fenice: “L’Etiopia e l’India, in particolare, producono uccelli dal piumaggio diversificato, che superano di gran lunga ogni descrizione. In prima fila tra questi c’è la Fenice, quel famoso uccello d’Arabia; anche se non sono del tutto sicuro che la sua esistenza non sia tutta una favola. Si dice che ne esista una sola in tutto il mondo, e che non sia stata avvistata molto spesso. Ci viene detto che questo uccello ha le dimensioni di un’aquila, e ha un brillante piumaggio dorato intorno al collo, mentre il resto del corpo è di un colore violaceo; tranne la coda, che è azzurra, con lunghe piume mescolate a una tonalità rosata; la gola è ornata da una cresta e la testa da un ciuffo di piume. Il primo romano che descrisse questo uccello, facendolo con grande precisione, fu il senatore Manilio, famosissimo per la sua erudizione; che dovette, inoltre, agli insegnamenti di nessun maestro. Ci racconta che nessuno ha mai visto questo uccello mangiare, che in Arabia è considerato sacro al sole, che vive cinquecentoquaranta anni, che quando invecchia costruisce un nido di cassia e rametti di incenso, che riempie di profumi, e poi vi adagia sopra il suo corpo per morire; che dalle sue ossa e dal midollo nasce dapprima una specie di piccolo verme, che col tempo si trasforma in un uccellino: che la prima cosa che fa è compiere le esequie del suo predecessore e portare il nido intero alla città del Sole vicino a Panchea, e lì deporlo sull’altare di quella divinità. Lo stesso Manilio afferma inoltre che con la vita di questo uccello si completa la rivoluzione del Grande Anno e poi si ripete un nuovo ciclo con le stesse caratteristiche del precedente, nelle stagioni e nell’aspetto delle stelle” (Nat. Hist. 10. 2).
Sempre nella lettaratura latina,le principali caratteristiche attribuite alla Fenice si trovano in un lungo carme, il De ave Phoenice (“l’uccello Fenice”), tradizionalmente attribuito a Lattanzio (c. 250 – c. 325). Esso si apre con una lunga descrizione del favoloso luogo dove la Fenice vive abitualmente, “lontano nell’estremo Oriente” (v. 1), in cui “il sole irradia il giorno dall’asse di primavera” (v. 4). Laggiù, in una bellissima pianura che supera in altezza le più alte montagne, una sorta di Eden mai toccato dalle miserie di questo mondo, “si trova il bosco del Sole” (v. 9), con alberi sempreverdi irrigati da una fonte meravigliosa: ed è in questo luogo, sulla cima di un altissimo albero “che da solo troneggia su tutto il bosco” (v. 40), che sul far del giorno la Fenice, “l’unico uccello ad abitare questo bosco e queste selve,/ l’unico, ma vive risorgendo dalla sua morte” (31-32), attende il sorgere del sole, al cui arrivo essa intona un canto straordinario, dalla bellezza ineguagliabile. Poi però, raggiunti i mille anni di vita, “per ridar vita al tempo consumato nel volgersi dei secoli/ si allontana dal consueto dolce nido del bosco/ e quando abbandona i luoghi santi per il desiderio di rinascere/ allora si avvia verso questa parte del mondo, dove regna la morte” (61-64). Qui essa si costruisce un nuovo nido e si prepara a morire, fin quando il suo corpo “divampa e una volta bruciato si dissolve in cenere” (v. 98). Però poi risorge dalle sue ceneri, riprende il suo aspetto precedente (bello e coloratissimo, con prevalenza del rosso e dell’oro) e, dopo essere volata in Egitto, finalmente ritorna nel luogo celeste da cui era discesa.
In questi versi – nei quali colpisce in particolare l’immagine iniziale della Fenice, appollaiata sulla cima di quell’“altissimo albero”, in attesa di intonare il suo canto al sorgere del sole – non mancano i riferimenti ad un’ambientazione che non è terrena, ma celeste. Ciò già appare all’inizio del poema, dove viene descritto il mondo paradisiaco in cui essa vive, dove “il sole irradia il giorno dall’asse di primavera” (v. 4). Si tratta di un preciso riferimento astronomico al giorno dell’equinozio, quando il sole sorge nel punto vernale (il punto in cui, in linguaggio astronomico, l’equatore celeste interseca l’eclittica). Questa collocazione astronomica è confermata da un verso successivo, dove “il Sole bussa alla soglia della porta splendente” (v. 43): si tratta in realtà di una porta astronomica, che si ritrova in Omero, allorché menziona le “porte del cielo che le Ore avevano in custodia” (Il. 5, 749: qui le Ore sono le stagioni dell’anno, scandite dagli equinozi e dai solstizi), e da Ovidio, quando fa dire a Giano, il dio romano delle porte: “Sto seduto alle porte del cielo con le gentili Ore” (Fast. 1, 125). Per inciso, il concetto di porta astronomicasiritrova in alcunirepertiarcheologicirisalentialla prima età del bronzo: “Il disco di Nebra e la losanga di Bush Barrow sembranoentrambiesserestatiprogettati per riflettere il ciclosolareannuale” (MacKie 2009, p. 41). In effetti, gliangolicorrispondentiall’arco di orizzontetrai due punti in cui il sole sorge neisolstizid’inverno e d’estate, neiluoghi in cui essisonostatirispettivamenterinvenuti, siritrovano in alcunedellespecifichecaratteristichedeirepertistessi.
La diffusione della figura della Fenice sia nello spazio che nel tempo, nonché la sua dimensione intrinsecamente celeste, è attestata dalla cosiddetta “Fenice cinese”, come in Occidente è stato ribattezzato il mitico uccello che in Cina è chiamato Feng o Fenghuang (ma che sotto altri nomi si ritrova anche in altri Paesi dell’Estremo Oriente). Il Feng appare per annunciare l’inizio di una nuova era, scende dal cielo sulla terra e poi torna alla sua dimora celeste per aspettare l’era successiva. In Cina è anche chiamato “gallo augusto” e si dice che abbia avuto origine dal sole; può essere multicolore (nero, bianco, rosso, giallo e verde), ma a volte è raffigurato come una palla di fuoco, oppure ha l’aspetto di un gallo rosso, e vi sono leggende che esaltano il suo canto (Nozedar, 2006, p. 37).
L’immagine del Feng era legata alla figura dell’Imperatore, al punto che soltanto l’Imperatore e l’Imperatrice, che vivevano nella Città Proibita di Pechino, erano autorizzati ad indossarne il simbolo. Il nome cinese della Città Proibita era Zijincheng, “Città Proibita Porpora”, dove Zi, “Porpora”, si riferisce alla stella polare, attorno alla quale ruotano tutte le stelle del cielo notturno. Essa nell’antica Cina era chiamata Ziwei, la “Stella Porpora”, considerata la dimora dell’Imperatore celeste. La sua corrispondente sulla Terra era la Città Proibita Porpora, residenza dell’Imperatore terreno, il re-sacerdote, intermediario fra la Terra e il Cosmo, che si trova al centro del nostro mondo, riflesso e immagine del mondo celeste (Barmé, 2008, p. 26).
Il rapporto tra la Fenice e la regalità si riscontra anche nella figura del mitico uccello Turul, la Fenice ungherese: “Il falco o Turul (…) durò a lungo come simbolo appartenente alla casa regnante” (Rady, 2000, p. 12). Qui il riferimento è alla dinastia Árpád, la dinastia regnante del Principato d’Ungheria nel IX e X secolo e del Regno d’Ungheria dal 1000 al 1301, che prese il nome dal Gran Principe ungherese Árpád, ma era anche conosciuta come dinastia Turul. La sua origine “si faceva risalire ad Attila, il Gran Re degli Unni” (Neparáczki, 2022 p. 260), raffigurato con il suo scudo in cui campeggia l’immagine del Turul (Fig. 1). Ma questo rapporto del mitico uccello con la regalità si riscontra anche in epoca più moderna, nel famoso “Ritratto della Fenice” (c. 1575), così chiamato per il gioiello a forma di Fenice che la regina Elisabetta I indossa sul petto.

D’altronde Elisabetta I viene esplicitamente messa in relazione con la Fenice anche da Shakespeare, in alcuni versi del dramma storico Enrico VIII: “Ma come quando/ muore l’uccello delle meraviglie, la fanciulla Fenice,/ le sue nuove ceneri creano un altro erede,/ grande nell’ammirazione quanto lei;/ così [Elisabetta] lascerà la sua beatitudine ad uno,/ quando il cielo la chiamerà da questa nube di oscurità,/ che dalle sacre ceneri del suo onore/ sorgerà come una stella, grande nella fama quanto lei” (Atto V, Sc. 5, vv. 3423-3430).
Ma ora, dopo aver delineato la figura di questo mitico uccello in varie mitologie, è il momento di approfondire qualcuno dei suoi tratti distintivi, in particolare il suo rapporto con l’Albero Cosmico. Questo aspetto si rivelerà cruciale per comprendere il significato nascosto dietro l’immagine della Fenice che muore e rinasce.
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