Le Pleiadi e il nome della divinità protettrice di Roma

di Ing. Felice Vinci

La scoperta dell’identità della divinità protettrice di Roma nasce da un’indagine sul misterioso motivo che spinse l’imperatore Augusto a condannare il poeta Ovidio all’esilio perpetuo a Tomi, l’attuale Costanza sul Mar Nero. Al riguardo lo stesso Ovidio, nelle opere scritte durante il suo esilio, ci ha lasciato preziose indicazioni: infatti, se da un lato ammette di aver commesso un crimine che comportava la pena di morte, ma che gli fu commutata nell’esilio a condizione che non rivelasse il motivo della condanna, dall’altro afferma che «i miei ultimi atti sono stati la mia rovina» e che «due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore». A questo punto è stato ragionevole ipotizzare un legame tra l’improvvisa condanna e qualcosa che egli doveva aver scritto poco prima: pertanto conveniva cercare qualche indizio del suo error – grave al punto da fargli rischiare la pena capitale, e nel contempo non rivelabile – nei sei libri dei Fasti, l’opera a cui stava lavorando al momento della condanna (e che difatti è rimasta incompiuta).


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Nell’esaminare dunque i sei libri dei Fasti che Ovidio ci ha lasciato, poco dopo l’inizio del quinto abbiamo riscontrato una singolare anomalia in un passo in cui la Musa Calliope, nel rievocare gli antefatti della fondazione di Roma, chiama direttamente in causa le sette stelle Pleiadi ed in particolare quella centrale, considerata la più importante: Maia, che è anche la madre del dio Hermes. In effetti, nella letteratura latina appare del tutto anomalo, in un contesto riguardante le origini della città, questo rilievo che il poeta attribuisce alle Pleiadi e a Maia, come dimostra il fatto che mai, prima e dopo di lui, erano state menzionate in rapporto con la fondazione di Roma! Ciò ha destato il sospetto che Ovidio abbia imprudentemente toccato un argomento “tabù”, a cui non era lecito fare neppure il minimo accenno. 

Ricordando ora che la innominabile colpa di Ovidio comportava la pena capitale, a questo punto non abbiamo potuto fare a meno di pensare alla vicenda di Valerio Sorano, che poco tempo prima di lui era stato condannato a morte per aver rivelato il nome segreto di Roma. Tale severità nei confronti dei trasgressori era motivata dal fatto che i sacerdoti romani, prima dell’assedio di una città, ne invocavano la divinità protettrice, promettendole che nell’Urbe avrebbe goduto di un culto almeno uguale se fosse passata dalla parte dei Romani. Pertanto, al fine di impedire che i nemici di Roma potessero fare lo stesso, il nome della sua divinità protettrice doveva essere coperto dal più assoluto riserbo. Si trattava insomma di un segreto di Stato che intendeva tutelare la sicurezza dell’Urbe e la cui violazione comportava per l’appunto la pena di morte.

Esaminiamo dunque le Pleiadi: nella tradizione greco-romana erano considerate sette sorelle, di cui quella centrale era Maia, chiamata “Santissima” da Cicerone (in realtà, esse astronomicamente sono un ammasso stellare che fa parte della costellazione del Toro e comprende più di mille stelle). A questo punto, colpisce il fatto che la loro disposizione in cielo corrisponda a quella dei Sette Colli di Roma, circondati dalle antiche Mura Serviane.

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Ciò dà adito al sospetto che il tracciato di queste mura sia stato adattato all’esigenza di adeguare il layout del territorio cittadino in esse racchiuso alla configurazione delle sette Pleiadi, al centro delle quali la Santissima Maia corrisponde al Palatino, su cui Romolo tracciò il solco della Città Quadrata in occasione della fondazione dell’Urbe. Insomma, man mano che Roma si estendeva sul territorio accidentato di quello che adesso è il suo centro storico, il suo sviluppo potrebbe essere stato opportunamente pilotato, forse dal gruppo sacerdotale che faceva capo al Pontefice Massimo, attraverso una sorta di “piano regolatore” ispirato al suo modello celeste, secondo il motto, attribuito a Ermete Trismegisto, che «ciò che è in basso corrisponde a ciò che è in alto».

Non solo: pochi versi dopo il discorso di Calliope, Ovidio fornisce un altro indizio. Infatti indugia a lungo sulla Bona Dea, una misteriosa divinità protettrice il cui vero nome non doveva essere mai pronunciato. E che dietro la misteriosa Bona Dea si nascondesse proprio Maia lo afferma apertamente Macrobio, scrittore della tarda romanità, vissuto alcuni secoli dopo, quando il tramonto del mondo pagano aveva ormai fatto crollare gli antichi tabù: «Alle calende di maggio fu dedicato un tempio a Maia, cioè alla Terra, sotto il nome di Bona Dea». Insomma Maia era il nome della divinità protettrice di Roma, e probabilmente corrispondeva anche al nome segreto della città (così come Atene era dedicata alla dea Atena e ne portava il nome).

A questo punto è legittimo chiedersi se anche il 21 aprile, data della fondazione di Roma, sia riferibile a questo inedito rapporto con le Pleiadi che Ovidio ci ha rivelato. In effetti, secondo l’antico calendario babilonese, la levata delle Pleiadi corrispondeva al primo giorno di Ayāru, il secondo mese dell’anno, corrispondente alla costellazione del Toro, tra aprile e maggio: ma ancora oggi il primo giorno del secondo mese dell’anno zodiacale, corrispondente al segno del Toro, è il 21 aprile! Ne consegue che anche la data della fondazione di Roma, in aggiunta ai suoi Sette Colli, rappresenta una ulteriore, stringente connessione con le Pleiadi.

Insomma la data del 21 aprile, in concomitanza con l’inizio del segno del Toro – di cui le Pleiadi sono le stelle più rappresentative – riletta in quest’ottica si rivela dotata di un profondo significato sacrale: non solo i Sette Colli di Roma rispecchiano sulla Terra l’aspetto delle Pleiadi, ma anche la sua data di fondazione è legata al loro ciclo annuo sulla sfera celeste. 

Tornando a Ovidio, a questo punto siamo in grado di comprendere anche cosa lo abbia spinto a menzionare quella imprudente correlazione, che gli sarebbe costata la condanna all’esilio, tra le Pleiadi e la fondazione di Roma: infatti Sulmona, la patria del poeta, si trova ai piedi del massiccio della Maiella, che secondo la tradizione avrebbe preso questo nome proprio dalla dea Maia e dove tuttora si ritrovano antiche leggende legate sia a lei che a suo figlio Hermes (il cui nome infatti sembra ancora risuonare nell’antico nome di una delle cime del Palatino: Cermalus).

Non solo: oltre a Roma, in Europa vi sono molte antiche città su sette colli, quali Armagh (la città sacra dell’antica Irlanda, il cui nome deriva da Ard Mhacha, “collina di Mhacha”, grande divinità celtica), Zevenbergen in Olanda, Besançon in Francia, Bruxelles in Belgio, Bamberg in Germania, Vilnius in Lituania, Pola in Croazia, per non parlare di Bergamo e Cagliari. Nel mondo poi ve ne sono anche altre, tra cui la Mecca – chiamata in arabo Makka al-Mukarrama, “Mecca (Makka) l’Onoratissima”, locuzione che ricorda la Santissima Maia di Cicerone – per non parlare di Gerusalemme, Bisanzio, Teheran (che ha più di 6000 anni), addirittura Macao in Cina. Notiamo anche che nel mondo slavo vi è una dea, Mokoš, la Grande Madre, che dà il suo nome a diversi villaggi; e forse lo stesso nome di Mosca, città anch’essa su sette colli, chiamata Matuška Moskva (“Madre Mosca”), potrebbe essere correlabile con Mokoš-Mhacha-Makka-Maia. In tale contesto, è a dir poco sorprendente il fatto che la Terra fosse chiamata Maka sia dagli antichi Micenei, antenati dei Greci, sia dai Sioux Lakota delle pianure americane, per i quali “Unci Maka” è la “Madre Terra”!

Insomma, nel mondo attuale sembrano ancora adesso riverberarsi i riflessi del culto della Grande Madre, e la distanza che separa tra loro queste civiltà attesta l’antichità di tale concezione, suggerendo altresì l’idea che sia esistita una civiltà globale preistorica, diffusasi su tutto il pianeta attraverso la navigazione, la quale avrebbe lasciato tracce di sé con i suoi megaliti sparsi quasi ovunque, persino nelle isole della Polinesia (dove i primi navigatori europei, con loro grande sorpresa, hanno trovato anche uomini alti e biondi): di essa Platone ci ha lasciato l’ultima memoria attraverso il mito di Atlantide.

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