Quale è ‘ultima informazione che avete cercato “on line”? il “post” dei social media su cui vi siete soffermati o le news che avete letto sullo smartphone?
E se queste scelte fossero state guidate da abili algoritmi, il risultato della machine learning che molti amano chiamare I.A.? Questa nuova normalità basata su dati e algoritmi, a mio parere (e non solo mio) crea una monotona omogeneità mondiale, che rischia di privare l’umanità della capacità di discernimento, celando la verità e creando una distonia assordante, una realtà falsamente rassicurante che in primis priva l’utente di coerenza con il mondo reale e poi lo rende debole e manipolabile.
Come presidente dell’Istituto per gli studi avanzati e la cooperazione non demonizzo l’innovazione e la tecnologia, ma ne studio le possibilità e ne valuto l’impatto. Non ne faccio una questione di giusto o sbagliato, ma di utile o dannoso. Il mio interesse principale e lo studio dell’interdisciplinarietà; come il tutto possa essere collegato e prodromico. Nei fatti come si possa comprendere l’universo attraverso il comportamento dei batteri, o come si giunga alla teoria dei Quanti attraverso lo studio di un enzima all’interno dell’occhio del pettirosso Europeo. Ciò dà l’idea della vastità della materia, ribadendo l’importanza di trovare pensieri laterali, visioni alternative, contaminazioni evolutive in ogni fase della ricerca. Amo questa materia perché in ciò (ma come in molti altri campi) l’uomo dimostra tutta la sua superiorità rispetto ad ogni mistificazione di intelligenza tecnologica.
Oggi fa quasi tenerezza il modo nel quale nel mio primo libro (2012) “l’evoluzione multimediale” edito da Gangemi, descrivevo di possibili futuristiche applicazioni dell’evoluzione tecnologica nei media e nella comunicazione, eppure ero uno dei pochi fervidi sostenitori del telefono come mezzo di fruizione di contenuti multimediali, tanto da indurmi ad aprire la prima IPTV europea. Mi diedero del pazzo e dopo poco più di un anno fui costretto a chiudere IPTVision srl. Da allora quelli che definiamo I “feed” algoritmici hanno scalato e accelerato l’interconnessione globale dell’umanità a un livello inimmaginabile. Sono entrati in tutti gli ambienti: dalla finanza all’intrattenimento, dalla politica alla sicurezza e alle comunicazioni contribuendo all’omogeneizzazione culturale. E questo non fa bene: la classificazione, la schematizzazione, l’inquadramento oppressivo portano alla paura di essere diversi, di non essere “politically correct” di avere idee contrastanti: la paura di avere idee. Un atteggiamento inquietante che vediamo ripresentarsi con il prevaricante avvento dei social media: “è diventato virale” il sogno di ogni influencer o aspirante tale.
Ricordiamoci poi che dietro gli algoritmi ci sono uomini, che per tornaconto, applicando quanto appreso dalle neuroscienze sul cervello ed il suo funzionamento hanno creato queste instancabili trappole, che stimolando le endorfine giocano con i nostri sensi, amplificando il bisogno umano del piacere. Diventa difficile per qualsiasi utente tecnologico resistere alla tentazione di subire e produrre contenuti aleatori e dunque diventare vittima e carnefice in questo gioco di specchi dove perdersi è facile, quasi fisiologico. L’influenza dei social media ha accentuato il dilagare di disturbi che in molti non esitano a definire vere patologie e psicosi. I “like” e la propria visibilità sembrano essere sempre di più un passo fondamentale verso il successo personale o professionale; si ascolta e si comprende sempre meno, scaraventati verso contenuti adatti ad un cervello ormai fuori controllo e avido di stimoli basici. Ma l’essere umano è un camaleontico meraviglioso sistema complesso, e proprio quando tutto sembra perduto, sa trovare nuove prospettive nelle quali si intravede a mio giudizio la mano di Dio. Forse alcuni mi giudicheranno un inguaribile ottimista, ma io in questa battaglia vedo solo l’ennesima sfida per l’evoluzione, la possibilità di raggiungere nuovi orizzonti per coloro che sapranno salvarsi dal canto delle sirene. Perché è proprio in quella che sembrerebbe una perdita di razionalità e coerenza che io vedo un salto quantico, la magia del divenire. Lo stesso algoritmo evolutivo, prevede, una perdita di equilibrio, ma non di “visione”, di direzione. Questo ben si sposa con il concetto naturale di omeostasi (dal greco omeo – e – stasi, “simile posizione”): la tendenza naturale al raggiungimento di una stabilità relativa. Questa continua ricerca di bilanciamento, costantemente derisa, permette nel suo palesarsi di determinare se vi sia energia e dunque materia e vita. Le prossime occasioni nelle quali ci ritroveremo a parlare di bilanciamento, ricordiamoci che il bilanciamento è stagnazione: e che la stagnazione è morte. La scienza si muove per competenze, e se abbiamo paura di esplorarle, finiremo nelle sabbie mobili della non conoscenza.
Questo bisogno concettuale, fisico e biologico di divenire ed essere, richiede al contempo grande etica morale affinché le conoscenze non vengano utilizzate per demonizzare le istituzioni, le tradizioni e le regole, per offendere la natura e gli uomini, il sapere e la cultura. Concetti che vanno difesi dalla superficialità di chi vorrebbe riscrivere la storia, negare il passato, azzerare le differenze.
Un dubbio mi sorge spontaneo: forse quel confort tanto ricercato dall’uomo è il porto nel quale le navi marciscono divorate dalle teredini, dove gli individui diventano sempre più fragili sia spiritualmente che fisicamente. La biologia ci ricorda l’indispensabile bisogno di spingersi oltre, di uscire da tanta pigrizia, per mantenere un corpo funzionale e stimolare la neurogenesi e la vitalità. Potrà essere fatale restare in quella “confort zone” che ci rende tutti uguali, relegati in un limbo in cui nessuno sbaglia, nulla accade e tutto inesorabilmente si consuma nella danza di I “feed” algoritmici sempre più voraci e capaci. Dagli errori si acquisisce nuova conoscenza e ci si evolve; l’imperatore romano Marco Aurelio diceva: “il problema diventa il cammino”. Noi, di problemi nella via della conoscenza, immersi in una tecnologia che qualcuno spera diventi il placebo di ogni male, ne abbiamo commessi innumerevoli. L’uomo deve tornare, a mio parere, al centro del suo vivere, come singolo e ancora di più come parte della comunità; per credere, imparare, rimediare, costruire, per armonizzare la sua essenza nel Creato e dare significato al suo esistere. Credo che una buona dose di irrazionalità, dote spesso sottovalutata, insieme alla Fede, con le sue meravigliose profonde radici, potrà dare giusta linfa all’albero del genere umano e sottrarlo a un futuro piatto già programmato da altri. Dunque imparare comprendere e utilizzare; e non farsi utilizzare.
Consiglio, di uscire dal “mainstream” quando si cerca un’informazione e di ascoltare le voci fuori dal coro, di percepire, oltre le dichiarazioni ufficiali, quale sia la verità. Perché se è vero che le macchine posso riprodurre i codici, gli uomini (per fortuna molti uomini) hanno ancora la capacità unica di interpretarli e comprenderli meglio di qualunque macchina.
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