Fotografia amica di una vita,

Fotografia amica di una vita,

storia particolare di Arnaldo Bonzi

Un signore sorridente e affabile, un romano vero, di una Roma che ha lasciato il profumo della malinconia. Rimane orfano di padre all’età di 13 anni e di lui ha tenuto stretta asé, per tutta la vita, la sua passione per la fotografia e quella macchina fotografica a soffietto che il suopapà amava e che lui vedeva come oggetto magico.

Nel liceo scientifico Righi di Roma, agli inizi degli anni ’50, scopre un laboratorio di fotografia dove lui aveva qualche possibilità in più rispetto agli altri coetanei in quanto avendo una nonna tedesca conosceva un pochino la lingua di questa nazione all’avanguardia nella fotografia. Grazie al padre di un suo compagno di classe, fece la conoscenza di Giacomo Pozzi Bellini e da lì cominciò la sua incredibile storia che lui stesso racconta con un’eccezionale verve.

“Ho cominciato a fare veramente la fotografia facendo il suo assistente. Era un vero genio, ma di tecnica non sapeva nulla, a tal punto che capitava che chiedesse a me quale diaframma dovesse mettere. Ma aveva un “occhio” straordinario per le inquadrature. Proseguendo a lavorare con lui, speravo fosse un’arte che avrei appreso con il tempo. In qualche misura posso dire che ciò si è avverato, in quanto le fotografie più belle le ho fatte in quel periodo, perché come si dice: “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, pertanto imparai a fare fotografia.  Ma mi è sempre stato molto chiaro che non avrei mai potuto competere con persone come lui, anche perché avevo la convinzione che la categoria dei fotografi fosse composta di persone così. Mi sono accorto solo con il passare degli anni che invece di fotografi come lui ce ne erano veramente pochissimi. Voglio raccontare una delle prime esperienze del lavoro con lui. Erano i tempi della morte di Papa Pio XII e noi ci recammo in Vaticano per fotografare i cardinali che erano arrivati per il Conclave.  Giacomo Pozzi Bellini, era un comunista atipico, ma pur sempre comunista di quei tempi e dunque completamente disinteressato alla situazione.  Spesso si fregiava del fatto che sua moglie fosse Silvia Piccolomini, che come diceva lui in un dialetto toscano “la mi’ moglie è nipote di papi”. Ma lo diceva solo per pavoneggiarsi, ma in realtà non è che gliene importasse molto.  Per cui mi diede una lista di nomi di cardinali che aveva saputo potessero essere papabili e mi salutò dicendo che avrebbe fatto delle fotografie in giroe a me chiese di fotografare i cardinali che entravano. All’epoca c’era una persona che con il megafono annunciava il nome del cardinale che stava arrivando e, se si trattava di un nome che era sulla lista, ci si catapultava per fotografarlo.

In quella occasione scoprii una cosa che non avrei mai saputo altrimenti. I fotografi americani avevano una tecnica molto particolare per accaparrarsi la possibilità di fare una buona fotografia. Ossia erano in gruppi di più persone ma in realtà a scattare le fotografie erano solo una o due e gli altri servivano a disturbare in modo che per i fotografi di altre testate fosse difficile fare fotografie migliori delle loro.  Dato che la metodica era quella di dare spintoni, non riuscivo a scattare neanche una fotografia e mi cominciavo ad agitare, in quanto non avevo portato a termine il mio compito. Ad un certo punto viene annunciato un cardinale e vedo un uomo che scende dalla macchina e stranamente non era assalito dagli altri fotografi. Non c’era nessuno e così scatto un paio di fotografie. Quando poi il papa fu eletto, ho scoperto che Giovanni XXIII era la persona che avevo fotografato io. Ero incredulo, lo avevo fotografato solo io perché non si pensava potesse diventare papa. Per me è stata una specie di miracolo e difatti quelle fotografie non le ho date a Pozzi Bellini, non avrei potuto usare queste fotografie per un fatto economico. Sono immagini inedite di Giovanni XXIII quando scende dall’automobile ed entra nel Conclave da cui esce papa. Ma io me ne sono accorto dopo, quando ho visto qualche fotografia di lui e mi sono detto, in modo poco reverenziale:“ma questo è quello che ho fotografato io”!Neanche avevo sentito il nome, ma avevo solo visto che c’era un cardinale che non aveva nessuno attorno e che quindi potevo fotografare, così da poter dire che ero riuscito a fotografare almeno un cardinale con il cappello particolare.

Dopo questo episodio, cheha segnato la mia intera vita, in quanto per me fu un Segno, ho continuato a lavorare con Pozzi-Bellini, anche se non era propriamente facile. In quanto era un uomo molto particolare e la stessa moglie e i figli si stupivano del fatto che fossi l’unico che non prendeva a male parole.

Un episodio che mi lasciò incredulo fu quando facemmo un servizio fotografico da vendere alla rivista “Epoca”, che in quel momento era molto rinomata. In quel tempo ci si avvaleva del sistema “fuori sacco”, ossia si andava alla stazione dove c’era il carro postalee si dava lì il materiale da spedire. Dopo qualche giorno dall’invio delle fotografie, partimmoperMilano perché “Epoca” voleva assumerlo come direttore della fotografia. Ma quando arrivammo lui si rivolse al direttore della rivista e gliene disse di tutti i colori, in quanto era molto arrabbiato perché aveva “inquadrato” le sue fotografie. Anche se ero consapevole che avesse ragione, perché le sue fotografie erano perfette e non avevano nessun bisogno di essere manipolate, mi sentì piccolo piccolo ed ero esterrefatto di come difendesse la sua arte pur sapendo di perdere il contratto di lavoro.Lo apprezzai molto per questo. Ma poi, alla fine della sua vita, si è trovato troppo spesso in grandi difficoltà: veniva a mangiare a casa mia in quanto non aveva messo da parte neanche un soldo. Le sue macchine fotografiche erano tutte vecchie, perché non se ne poteva comperare di altre, in quantoaveva le figlie che crescevano e la moglie che purtroppo aveva una bruttamalattia che poi se la è portata via troppo presto. Ricordo che nel laboratorio che avevo aperto a via della Bufalotta c’era una stanza dedicata a lui, dove veniva con l’autobus la mattina, si metteva lì con il suo archivio e cercava di sistemare le cose fino a che non ci ha lasciato.

Era però veramente un comunista snob, perché veniva a casa mia a mangiare e mi chiedeva come facessi a vivere in “quella squallida periferia”. Per me era un posto bellissimo, tant’è che oggi è uno dei posti più ambiti. Casa miadi trova si fronte all’Ateneo Salesiano e quindi ci sonoanche con poche macchine che passano. Ho la casa con un bel giardino, c’è la piscina, c’è il campo da tennis. Però per lui era una “squallida periferia” perché secondo lui vivere a Roma significava vivere a Piazza di Spagna o a Piazza Colonna. Quella per lui era Roma! Per carità lo capisco, perchéera un appassionato dell’arte. Conosceva tutte quante le chiese di Roma ed io è grazie a luiche hoconosciuto bene la “mia” Roma: mi portava in alcuni posti meravigliosi, abbiamo girato un po’ tutti i musei e lechiese e abbiamo fotografato molto.

Negli ultimi tempi della sua vita era diventato però veramente difficile lavorare con lui, perché aveva perso la testa e spesso capitava che mentre stava fotografando iniziava a urlare alle persone perché disturbavano il suo lavoro. Quando urlava per la strada ero fortemente a disagio e se avessi continuato a lavorare con lui sarei diventato matto, perché mi era venuto un esaurimento nervoso.

Inizia a lavorare per il primo laboratorio fotografico a colori di Roma, e il proprietario mi mise in contatto con un gruppo della Kodak che stava cercando una persona per dirigere un laboratorio in Libia.  Avevo 24 anni e decisi di andare. Presi un aereo, che allora era a turboelica, in quanto ancora non c’erano quelli a reazione, ed arrivai a Tripoli. Vi erano in quel tempo parecchi ebrei di generazioni in Libia che convivevano con gli arabi locali e una moltitudine di italiani, che vi si erano trasferiti dopo che ci fu andato Benito Mussolini. La società di Tripoli appariva così: tutti quanti i negozi importanti di vendita erano in mano agli ebrei, tutte quante le attività manuali e meccaniche erano fatte da italiani e poi c’erano un po’ di negozietti di arabi che vendevano un po’ di tutto. Questi ultimi però stavano tutto il giorno seduti su un gradino davanti al loro negozio e facevano un te molto particolare che offrivano a chi lo volesse. Tenevano a bollire il te per talmente tanto tempo, che dopo averlo bevuto si stava svegli per giorni.

Mi sono trovato subito bene a Tripoli, ma c’era una situazione che per me era abbastanza inconcepibile: si lavorava infatti solo quattro giorni alla settimana in quanto il venerdì era la festa degli arabi, il sabato era la festa degli ebrei, la domenica era la festa nostra. Dato che dovevo occupare il resto dei giorni in qualche modo, decisi di esplorare il deserto per cercare reperti neolitici e paleolitici in alcune zone specifiche. Avevo montato sull’automobile, una Land Rover, due lettini ribaltabili, così se qualche amico fosse venuto con me non avremmo dovuto dormire per terra nel deserto, in quanto lì gli scorpioni sono parecchio grandi.

Ho vissuto una bellissima esperienza quando, essendo considerato un esperto del deserto, una compagnia di trasporti che doveva fare un trasporto nel Ciad, mi chiamò per attraversare il deserto in quanto non sapevano come fare poiché c’erano le guerre tribali in Kongo e in Niger. Abbiamo attraversato tutto quanto il Sahara in 28 giorni, con la mia macchina e sei camion.In certi giorni facevamo otto/ dieci chilometri al massimo perché, quando capitavamo in quelle zone dove si affondava, era un problema e dovevamo sgonfiare le gomme in modo che diventavano delle speciedi cingoli e poi rigonfiarle con il compressore che avevano a bordo una volta tornati su un terreno meno impervio. Tra l’altro i camion dovevano andare molto lenti altrimenti le gomme si bucavano. In quell’epoca infatti c’erano ancora le gomme con la camera d’aria. È stato molto bello vedere e fotografare quei luoghi suggestivi.

La fotografia è stata veramente il leitmotiv della mia vita. Infatti mi salvòanche in un momento molto particolare. Era il ‘ 68 e ci fu la guerra dei sei giorni in Egitto. Mi trovai in una situazione complessa quando alcune famiglie di ebrei mi contattarono per chiedermi di portargli delle provviste alimentari. Abitavano in una zona centrale di Tripoli e se fossero usciti di casa avrebbero rischiato la vita. Il caso però ha voluto che si trattasse di famiglie molto rigorose e quindi, quando dovevo portargli la carne, dato che non c’era più il macellaio, dovevo portargli dei polli vivi. Ovviamente andare in giro con un sacco con dentro dei polli che facevano versi, non mi lasciò passare inosservato. La fortuna è che facevo tutti i lavori per la polizia di Tripoli, perché ero l’unico laboratorio fotografico a colori e conoscevo il generale che comandava la guarnigione di Tripoli, che era una persona interessantissima, parlava perfettamente l’italiano, il francese, l’inglese, il tedescoed eravamo diventati amici. Era un libico che aveva studiato nella scuola di polizia in Italia. Tra noi c’era anche un rapporto di fiducia e di scambio, infatti quando mi serviva qualche permesso andavo da lui e mi aiutava sempre ed in cambio, quando lui veniva in Europa, mi toccava andare la notte a sviluppargli le fotografie che non doveva vedere nessuno. Quindi, quando i poliziotti mi fermarono con i polli vivi, mi portarono al comando e il mio amico mi disse che erano tutti fuori controllo perché non avevano capito che gli ebrei locali non erano israeliani.Mi assegnò una scorta per tre mesi, ma mi consigliò comunque di tornare in Italia. E così dopo quattro anni tornai.

Finché sono stato lì, molto mi ha aiutato l’Ambasciata italiana con le famiglie ebree. Infatti io gli portavo le fototessere e loro gli facevano un passaporto italiano; mentre per gli oggetti di valore mi aiutavano alcuni piloti che andavano a venivano da Pisa e lì mio fratello, che partiva da Roma, li raggiungeva. È durata così fino a quando non è toccato anche a me di andare via.

Tornato a Roma decisi di aprire un mio laboratorio.

Devo dire che il passaggio dal bianco e nero al colore non è stato traumatico, mentre lo è stato decisamente il passaggio ai sistemi digitali.  Quando tornai a Roma mi misi dunque in proprio e così è nata la Graphicolor, che è a tutt’oggi la mia vita e la mia passione. Qui conservo la collezione storica delle fotografie di Giacomo Pozzi Bellini.”

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