
Una realtà di incontro e dialogo, unica e molteplice al contempo. Unica poiché non può esisterne una di stessa natura e molteplice, perché sa declinarsi su tutti i temi, dai più semplici ai più complessi e anche controversi. Si tratta del “Cortile dei Gentili” che Sua Eminenza, il Cardinale Gianfranco Ravasi, ha fondato nel 2011, ispirato dalle parole di Papa Benedetto XVI, che il 21 dicembre 2009 affermò: “Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto.”
Il “Cortile dei Gentili” è uno “spazio” fondamentale in cui credenti e non credenti possono dialogare, e ciascuno dal suo sentire, può venire a conoscenza di quello dell’altro. L’essenza di questa creazione del Cardinale Ravasi, è infatti l’incontro, che non obbliga alla persuasione, mai. È una realtà tanto bella, nata e custodita nel cuore della Chiesa, che tende così la sua mano ai non credenti per un dialogo fecondo. Entrambe le posizioni infatti hanno da imparare l’una dall’altra, con nessuna pretesa di supremazia, perché è proprio questo lo spirito della Chiesa: il dialogo come strumento di incontro.
Per conoscere meglio l’essenza profonda e il respiro che muove il “Cortile dei Gentili”, ho intervistato Sua Eminenza, il Cardinale Gianfranco Ravasi, che con la sua alta maestria di disertus orator mi ha aperto il cuore e la mente.
Eminenza come ha avuto l’intuizione che ha dato vita al “Cortile dei Gentili?
Il seme ideale di questa istituzione vaticana, che ormai ha alle spalle un quindicennio circa di vita, è proprio in un discorso che Papa Benedetto XVI ha fatto alla Curia Romana per il Natale del 2009. In quell’occasione Egli aveva fatto riferimento esplicitamente a un cortile dei gentili nel quale coloro che considerano Dio come un eventuale interrogativo o uno sconosciuto, possano trovare qualche risposta.
Il punto di partenza, invece simbolico è questo spazio del tempio di Gerusalemme nel quale potevano accedere anche i gentili, cioè le gentes, i pagani che erano considerati atei dagli ebrei, anche se in realtà loro avevano i loro dei. E lì era l’occasione per questi pagani, di guardare al di là della frontiera e vedere un popolo, come quello degli Israeliti, che pregava e si incontrava. Questo raccordo iniziale di dialogo, aveva però un ostacolo di fondo, che bisogna ricordare per comprendere veramente in pienezza l’attuale “Cortile dei Gentili” e, cioè, aveva una cortina di pietra che separava i due ambiti, l’ambito sacrale degli ebrei e l’ambito laico, diremmo noi, dei gentili. Su questa cortina, su questa frontiera c’erano delle targhe di marmo con delle iscrizioni che comminavano la pena di morte qualora un pagano avesse usato varcare e andare nell’interno dello spazio sacro, profanandolo. Sono state trovate due di queste targhe, una molto frammentaria, e una integrale in greco, che era l’inglese di allora, che è stata scoperta nel 1800 e che si trova attualmente al Museo Archeologico di Istanbul. Perché abbiamo evocato questo simbolo di partenza? Perché il “Cortile dei Gentili” parte con lo stesso principio, ossia il principio dell’incontro almeno degli occhi, degli sguardi, ma ha in più la nota che ha portato Paolo nella lettera agli Efesini, nel capitolo secondo, dove dice che Cristo è venuto ed ha abolito il muro di separazione che c’era tra i due popoli, facendo dei due popoli un popolo solo. Ecco, ciò che noi vogliamo, non è tanto che ci si incontri semplicemente per trovare un minimo comun denominatore o per desiderio di conversione da parte del mondo cattolico, del mondo credente, ma far sì che non ci siano più delle barriere, delle siepi divisorie, ma che ci sia parità di discorso. E allora ecco, la parola fondamentale che regge questa esperienza è la parola “dialogo”, laddove, come dice questo termine nella sua matrice greca, sono due discorsi che “dia” si intrecciano tra di loro.
Lei ha sentito l’esigenza di far nascere il “Cortile dei Gentili” in un momento specifico?
Sì, noi l’abbiamo fatto sorgere in un momento, col pontificato di Benedetto XVI, quando le tensioni erano forti tra credenti e non credenti. Pensiamo al caso dell’Università di Roma, la Sapienza, che aveva rifiutato la presenza del Papa. Abbiamo pensato allora di poterlo organizzare inizialmente con degli emblemi. Per questo l’anteprima fu fatta all’Università di Bologna, che è la più antica università d’Europa e che è anche un emblema proprio della laicità. Vi intervennero figure molto diverse dal punto di vista culturale e accademico. La vera e propria epifania iniziale abbiamo poi scelto di farla a Parigi, perché era un po’ considerata la capitale della laicità e lì abbiamo scelto tutte le istituzioni principali cui il confronto avveniva. Tendenzialmente io intervenivo in tutte, però c’erano figure molto diverse come: la Sorbona, l’Académie de France, quella degli immortali che rappresenta un po’ la nobiltà intellettuale francese e l’UNESCO, per l’internazionalità. Il Parvis des Gentil ideale era il cortile davanti a Notre Dame, soprattutto perché sarebbe stato uno spettacolo per i giovani e il risultato fu sorprendente. Da quel momento, era il 25 marzo 2011, il “Cortile dei Gentili”, si è tenuto in luoghi anche molto diversi tra loro. Sostanzialmente sono due le tipologie di incontri che sviluppiamo: c’è la tipologia direi quasi popolare, che viene fatta anche nelle piazze e che coinvolge un pubblico eterogeneo in ambienti molto diversi, a cui prendono parte anche i bambini; E poi c’è quello più specialistico, in cui si approfondisce un tema sul quale ci sono prospettive differenti, con anche difficoltà di dialogo. Questo accade soprattutto per una ragione: ossia perché non esiste più, ai nostri giorni, un concetto di natura umana condiviso. Alla luce di questo quindi c’è sempre bisogno di confronto, che è faticoso, ma necessario, soprattutto quando si affrontano i temi antropologici.
Quando Lei ha presentato “il Cortile dei Gentili”, molti hanno pensato ad una volontà di riproporre la “Cattedra dei non credenti” del Cardinale Martini. Ci sono assonanza tra le due iniziative? E quali sono le differenze?
Innanzitutto dobbiamo dire che c’è una sostanza comune, rappresentata dall’incontro con i non credenti. Ma la differenza è che Martini, in un momento in cui non c’era nessun ascolto da una parte e dall’altra, ha voluto che il non credente dicesse la sua visione e la proclamasse a una platea di credenti. Ciò, in un certo senso, era dare il primato ai non credenti, affinché i credenti ascoltassero. Noi, pur sempre nello stesso spirito, puntiamo di più alla parità, per cui ognuno porta la sua visione e uno stimolo, che vedo anche realizzato tante volte, per cui il non credente ascolta la ragionevolezza del credere, la possibilità di un magistero, direi, parallelo assieme a quello della logica formale, della scienza e del fenomeno. Per certi versi è un po’ considerare che il mondo dei credenti nel “Cortile dei Gentili”, ricorda che c’è una dignità anche nel credere e che ci sia anche una consapevolezza che noi non abbiamo un solo canale di conoscenza, perché c’è parità di ascolto reciproco.
Eminenza, c’è un ambito che non è ancora stato toccato dal “Cortile dei Gentili”, ma che Le piacerebbe molto poter avvicinare e poterci dialogare?
Ce ne sono diversi. Ad esempio quest’anno abbiamo intenzione di affrontare, attraverso una azienda farmaceutica che ha offerto i suoi spazi, il problema della malattia mentale. E poi c’è anche la questione del cibo, soprattutto tenendo presente cosa vuol dire la fame nel mondo e, in maniera particolare, cosa vuol dire lo spreco. C’è anche un altro tema, che abbiamo già affrontato, ma su cui ancora penso si debba parlare, che è quello del suicidio medicalmente assistito.
Secondo me il problema deve essere centrato sempre molto sulla testimonianza. Devo dire però che, ai giorni nostri, si fa fatica a trovare il credente autentico e completo e lo stesso vale anche per il non credente, perché ciò che domina il tempo di oggi è purtroppo l’indifferenza, lo sbiadito.
Tra i giovani in questo momento più che mai sembra esserci una fluidità di pensiero sulla loro essenza. Il “Cortile dei Gentili” vuole affrontare anche questo argomento?
Questo è uno dei campi nei quali bisogna ancora che la Chiesa non soltanto dichiari, in quanto ormai si sa più o meno che cosa pensa su tale tema, ma anche che rischi un po’ di più e noi possiamo essere più liberi rispetto alla Dottrina della Fede, per cui possiamo rischiare di più, attraverso il dialogo e l’incontro.
Eminenza, Lei si è sempre confrontato con l’idea di bellezza, declinata nelle varie categorie che venivano affrontate negli incontri. Perché è una tematica così importante?
Tante volte ho detto che bisognerebbe introdurre una moratoria perché non si usi più quella frase di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo” che è un luogo comune, uno stereotipo.
La presenza della bellezza dei nostri “Cortili” si affida anche alla teologia di Von Balthasar. Ci sono tre universali che sono in pratica condivisi da tutti, ma poi praticati in maniera differente. C’è il “verum” e quindi tutto ciò che attiene la verità. Poi c’è il “bonum”, per cui ognuno deve cercare di avere una dimensione etica. Infine c’è il terzo universale che è il “pulcrum”: il tentativo di scoprire cioè nell’interno della verità una profondità trascendente. È quello che diceva Paul Klee, questo grande pittore del secolo scorso, secondo cui l’arte non rappresenta il visibile, ma l’invisibile che è nel visibile. È per questo che il bello diventa necessario per far sì che il bene, l’etica, la logica e la verità siano autentiche, che siano profonde e spinge a scoprirne la pienezza. La bellezza è parte anche della fede. Infatti, se si prende ancora quella frase che ho citato prima di Paul Klee, possiamo dire che la fede non rappresenta solo il visibile, ma l’Invisibile che è nel visibile. Il compito della fede sarebbe esattamente questo: mostrare il senso ultimo e profondo. In pratica la scienza fa vedere il fenomeno e la fede fa vedere il fondamento.
C’è un “Cortile dei Gentili” che in questo momento giubilare sarebbe opportuno fare?
Nel capitolo 25º del Levitico c’è la descrizione del Giubileo e a partire da ciò sarebbe interessante proporre un dialogo e una riflessione sulla parità. Non è infatti possibile che esistano miliardari supremi, pochissimi, e poi il resto dell’umanità. Questi miliardari dominano il mondo e tanti ne sono conquistati. È come una specie di medusa che attira.
Chi sarebbe l’interlocutore ideale per questo dialogo?
L’alta finanza mondiale, immagino.
Sarebbe fondamentale che però avessimo un interlocutore che si mette ad ascoltare le ragioni opposte, ossia quelle degli ultimi. Penso che se ci fosse stato Steve Jobs sarebbe stato interessante un dialogo, come lo potrebbe essere anche con Bill Gates. Sarebbe infatti l’ideale poter parlare con figure di questo calibro, anche se sono diverse proprio dalla prospettiva degli ultimi che vorremmo portare noi, com’è tipico del cristianesimo.
Rispetto a quando Lei ha fondato il “Corte dei Gentili” ad oggi, che cosa è cambiato? Se è cambiato qualcosa?
C’è stato il cambiamento, che reputo dovuto alla grande malattia del nostro tempo, che è quella della superficialità, della banalità, per cui è difficile far ragionare e approfondire. C’è poi anche un nuovo elemento, che ha cambiato radicalmente la vita della maggior parte delle persone, ossia la tecnologia, che noi dobbiamo cercare di inseguire con fatica. E allora, in questo caso, è vero quello che diceva il grande filosofo francese Paul Richer: “Noi viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi, corrisponde l’anoressia dei fini”.
Che futuro vede per il “Cortile dei Gentili”?
Credo che sarà sempre necessario, perché è sempre stato così nella storia dell’umanità: anche quando sarà minoritario, infatti il dialogo è necessario. È indispensabile evitare lo scontro e praticare invece l’incontro, che nella parola stessa dice che è in, ossia andare verso l’altro, ed è anche contro, perché l’altro deve avere la sua identità, non deve essere schiacciato e non deve neppure avere la percezione che la sua opinione non abbia importanza, poiché, alcune volte, può anche insegnare. Il credente non è che abbia tutta la verità, la verità è soltanto di Dio.
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