Una nuova ipotesi sulle Colonne d’Ercole

Abstract

In questo articolo, volto ad individuare la reale localizzazione delle mitiche Colonne d’Ercole, vedremo come prima cosa che sia Plutarco che Platone menzionano un continente situato al di là dell’Atlantico. In particolare, Plutarco si sofferma su un grande continente che circonda l’oceano Atlantico e sulle isole lungo quella rotta, citando anche un antico insediamento di Europei, chiamati “Greci continentali”, nella regione canadese del Golfo del San Lorenzo (di cui indica la latitudine con sorprendente precisione). Ma già qualche secolo prima Platone aveva data per certa l’esistenza di un continente oltreoceano, affermando inoltre che il porto di partenza di quegli antichi navigatori era caratterizzato da uno “stretto imbocco” e dalle Colonne d’Ercole. Incrociando questi dati con i risultati di un recente studio sul megalitismo europeo, da cui emergono“il trasferimento del concetto megalitico su rotte marittime provenienti dalla Francia nordoccidentale” e “una avanzata tecnologia marittima nell’età megalitica”, ne consegue che il punto di partenza delle navi preistoriche dirette verso il continente americano è identificabile con il Golfo del Morbihan (nell’area di Carnac, il sito megalitico più importante del mondo) dove in effetti nei pressi delsuo stretto imboccosono stati ritrovati i resti di uno monumentale allineamento di diciannove grandi menhir: ecco le Colonne d’Ercole! A conferma di ciò sta il fatto che sul versante americano dell’Atlantico il ricordo di insediamenti di coloni europei – forse legati all’attività di antiche miniere di rame nell’IsleRoyaledel Lago Superiore – sembra trasparire da vari indizi, quali la persistenza di miti e leggende accostabili a quelli del Vecchio Mondo, per non parlare dell’aspetto caucasico di alcuni nativi, quali i Wendat e i Mandan (i quali tra l’altro avevano certe stranissime barche rotonde,identiche ai “coracle” delle Isole Britanniche), che sembrano alludere ad antichi contatti tra le due opposte sponde dell’Atlantico.

Introduzione

In uno dei suoi Dialoghi lo scrittore greco Plutarco (ca. 45-125 d.C.) afferma che nell’Oceano Atlantico “un’isola, Ogigia, giace lontana nel mare, a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, in direzione del tramonto; più oltre vi sono altre tre isole tanto distanti dalla prima quanto tra loro” e più oltre si raggiunge “il grande continente che circonda il grande mare”1. Poco dopo Plutarco dice anche che in quei luoghi il sole durante l’estate scompare per meno di un’ora per notte, lasciando “un’oscurità leggera e crepuscolare”2. Ora, queste asserzioni di Plutarco corrispondono alla realtà geografica dell’Atlantico settentrionale, dove il continente americano circonda l’oceano dall’estremo nord fin quasi alla sua estremità meridionale, e le isole da lui menzionate effettivamente si trovano lungo la rotta nordica per il Nord America che i Vichinghi percorrevano avvalendosi del “periodo caldo medievale”3, durato all’incirca dal IX al XIII secolo, quando i ghiacci polari si erano ritirati e gli iceberg erano quasi scomparsi. Infatti quelle quattro isole si trovano ad un’alta latitudine, come confermato da quella breve notte chiara durante l’estate: Ogigia è identificabile con Nólsoy4, un’isola nell’arcipelago delle Faroer, mentre le altre tre corrispondono all’Islanda, alla Groenlandia e a Terranova.

Ma ancora più impressionante è un’altra affermazione che Plutarco fa subito dopo: “La costa di quel continente è abitata da Elleni stabiliti attorno ad un golfo non meno esteso della Meotide (l’odierno mar d’Azov, presso la Crimea), il cui sbocco si trova esattamente in linea retta con lo sbocco del Mar Caspio. Questi Elleni si chiamano e si ritengono ‘continentali’ (ēpeirotas)”5.

Questa indicazione ci permette di individuare subito il golfo dove essi vivevano: infatti lo ‘sbocco’ (stoma)del Mar Caspio si riferisce al delta del Volga, che sbocca nel Caspio alla latitudine di 47°, corrispondente a quella dove si trova l’imbocco del Golfo del San Lorenzo sulla costa atlantica del Canada! Qui Plutarco mostra una conoscenza della geografia a dir poco sorprendente, che conferma l’attendibilità delle sue affermazioni6.

Sempre in quel capitolo del De Facie, Plutarco menziona anche il “mare di Crono” (il nome che gli antichi Greci davano all’Atlantico settentrionale) e i “popoli di Crono”. Poiché secondo la mitologia greca il dio Crono era stato il signore della felice età dell’oro prima di essere detronizzato da Zeus, si può ragionevolmente supporre che il “popolo di Crono” sia l’ultima memoria della civiltà megalitica, molto precedente a quella greca, la cui scomparsa rappresenta una delle più grandi discontinuità della storia umana. Da questa testimonianza di Plutarco si può arguire che essa fiorì durante l’Optimum Climatico Olocenico (HCO in lingua inglese), chiamato anche Optimum Climatico Atlantico7, che assicurò un clima eccezionalmente mite in varie parti del mondo8; ma quando si esaurì, con il crollo della temperatura media l’estremo nord fu avvolto in una morsa di gelo e di ghiaccio, che interruppe i collegamenti marittimi fra le due opposte sponde dell’Atlantico.

In effetti la civiltà megalitica – che nacque in Europa nel V millennio a.C., in corrispondenza con l’optimum climatico – è più antica anche di quella egizia. Ciò corrisponde a una notizia riportata da Diodoro Siculo, secondo cui Osiride, mitico dio egizio che egli definisce il “figlio maggiore di Crono”, viaggiò in tutto il mondo, fino a raggiungere “quelli che inclinano verso il Polo”9. Ciò sembra riecheggiare antiche memorie risalenti ad un periodo molto remoto dell’Egitto predinastico, corrispondente al Neolitico, quando l’Optimum Climatico rendeva abitabili anche regioni poste a latitudini molto elevate.

Plutarco racconta anche che vi furono diverse ondate di colonizzazione: “Al popolo di Crono si unirono successivamente i compagni di Eracle, i quali riaccesero con una fiamma forte e brillante la scintilla greca, che era stata quasi spenta dalla lingua, dai costumi e dallo stile di vita deibarbari”10. Dalle nebbie di una remota preistoria, corrispondente alla mitica Età dell’Oro del dio Crono, emerge una narrazione straordinariamente viva e realistica.

A questo punto viene spontaneo chiedersi come riuscì Plutarco ad avere queste notizie. Egli stesso menziona uno straniero che trascorse molto tempo a Cartagine; inoltre certe notizie potrebbero essere arrivate a Roma dal mondo celtico, a seguito delle spedizioni militari che in quell’epoca i Romani fecero in Britannia, l’attuale Inghilterra, dopo la conquista della Gallia da parte di Cesare nel secolo precedente. Si potrebbe infatti supporre che qui Plutarco faccia riferimento alla tradizione orale dei druidi (la classe sacerdotale colta del mondo celtico) allorché all’inizio del suo racconto, nel soffermarsi su Ogigia e sulla sua collocazione nordatlantica, scrive: “I barbari raccontano…”.

D’altronde Tacito, contemporaneo di Plutarco, cita Ulisse – del quale è noto lo stretto rapporto con l’isola Ogigia11– in chiave nordica: “Alcuni credono che anche Ulisse in quel suo lungo e leggendario peregrinare sia giunto in questo oceano e sia approdato alle terre della Germania”12. Questo accenno ad un ” Ulisse nordico” da parte di Tacito (il cui suocero, Giulio Agricola, fu il governatore della Britannia romana per sette anni a partire dal 77 d.C.) ben si colloca accanto al discorso di Plutarco sulla collocazione nordatlantica di Ogigia, dando la sensazione che entrambi si riallaccino a una tradizione risalente ad un’epoca molto antica.

In questo quadro ben s’inserisce anche il fatto che Tacito menziona anche un Ercole nordico13, allorché afferma che per lui i popoli germanici avevano una predilezione particolare. D’altronde qualche secolo prima anche Pindaro (c. 518 BC – c. 438 BC) aveva menzionato i contatti di Eracle con gli Iperborei14. In effetti, la figura di Eracle si colloca ben al di là del mondo greco, come attesta il fatto che, a differenza di altri eroi greci, in Grecia nessuno ha mai rivendicato la sua tomba. Inoltre, a conferma della sua dimensione per così dire “internazionale”, certamente dovuta alla sua grande antichità (come indica la sua presenza anche nella mitologia romana, in cui Ercole appare in veste di protagonista di leggende che fanno riferimento ad un’epoca precedente alla fondazione di Roma), Eracle, l’eroe divinizzato per le sue grandi imprese, fu identificato dagli antichi greci con il dio fenicio Melqart15.

Le Colonne d’Ercole

Torniamo ora al continente situato al di là dell’oceano, dove abbiamo sorprendentemente trovato Eracle. Ma già diversi secoli prima di Plutarco, anche Platone aveva fatto un riferimento preciso ad esso e alle isole lungo il suo percorso: “Quell’oceano lì una volta era navigabile; infatti di fronte alla bocca che voi Greci chiamate, come dite, ‘colonne d’Eracle’, c’era un’isola che era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme; ed era possibile ai viaggiatori di quel tempo passare da essa alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente di fronte ad esse che racchiude quel vero oceano. Perché tutto ciò che abbiamo qui, nella bocca di cui parliamo, è evidentemente un porto con uno stretto imbocco; ma quello laggiù è un vero e proprio oceano, e la terra che lo circonda può certamente, veramente, correttissimamente essere chiamata un continente”16.

Dunque anche Platonemenziona Eracle in relazione all’oceano Atlantico; ma ciò che più colpisce in questo passo sono i tre avverbi consecutivi – tra cui l’ultimo, “correttissimamente”, orthōtata in greco, è al superlativo nel testo greco17– con cui egli, vissuto nel IV secolo a.C., sottolinea con grande enfasi l’esistenza al di là dell’Oceano di un continente ignoto ai suoi contemporanei. Al riguardo Enrico Turolla, uno dei più insigni grecisti del Novecento, nel commentare questo passo sostiene che “Platone è portatore di una voce che viene da più lontano. Egli ha ricevuto, ha sistemato; non ha inventato; anzi ha conservato fedelmente, come l’accenno al continente al di là del mare senza alcun dubbio dimostra”18.

Inoltre Platone in questo passo contraddice clamorosamente la tradizionale collocazione delle Colonne d’Ercole nello Stretto di Gibilterra. Infatti quest’ultimo non solo non è affatto un porto, ma per di più ha una larghezza minima di 14 chilometri! Insomma non ha nulla a che vedere con le precise indicazioni del grande filosofo greco. Riguardo poi all’isola atlantica che fungeva da scalo intermedio sulla rotta per il continente oltreoceano, abbiamo mostrato in un altro lavoro che le sue caratteristiche, su cui Platone si sofferma sia nel Timeo che nel Crizia, corrispondono a quelle della Groenlandia19, ovviamente in un’epoca in cui il clima, più caldo di quello attuale, rendeva navigabile l’Oceano Artico. Inoltre, ciò corrisponde anche a quanto detto da Plutarco a proposito delle isole al di là di Ogigia (una delle quali, come abbiamo detto in precedenza, è identificabile con la Groenlandia) che, come abbiamo visto, si trovano ad un’alta latitudine sulla rotta del continente americano.

Insomma, i passi che abbiamo appena letto delineano chiaramente la plausibilità di antichissime traversate transatlantiche (presumibilmente nell’età megalitica, quando il clima era più favorevole di quello attuale, ed avvalendosi di isole intermedie situate ad un’alta latitudine): il loro punto di partenza, come Platone tiene a precisare, era un porto caratterizzato da uno stretto imboccoe dalle Colonne d’Ercole.

Ma adesso, per localizzarlo esattamente sulla costa europea dell’Atlantico, conviene prendere in esame alcuni passaggi di un recente articolo sul megalitismo europeo, in cui tra l’altro si afferma:

 “Per migliaia di anni, le società preistoriche costruirono tombe monumentali ed eressero menhir nelle regioni costiere dell’Europa (4500–2500 a.C.) (…) Il risultato qui presentato, basato sull’analisi di 2.410 date al radiocarbonio e su cronologie altamente precise per siti megalitici e contesti correlati, suggerisce la mobilità marittima e lo scambio interculturale. Sosteniamo il trasferimento del concetto megalitico sulle rotte marittime provenienti dalla Francia nordoccidentale, nonchéuna avanzata tecnologia marittima e la navigazione marittima nell’era megalitica (…) I risultati del radiocarbonio suggeriscono che le tombe megalitiche apparvero, in un intervallo di tempo compreso tra 200 e 300 anni nella seconda metà del V millennio a.C., nella Francia nordoccidentale, nel Mediterraneo e sulla costa atlantica della penisola iberica. La Francia nordoccidentale è, finora, l’unica regione megalitica in Europa che presenta una sequenza monumentale premegalitica e strutture di transizione ai megaliti, suggerendo che la Francia settentrionale sia la regione d’origine del fenomeno megalitico (…) I movimenti megalitici dovettero essere potenti per diffondersi con tale rapidità nelle diverse fasi, e le competenze, le conoscenze e la tecnologia marittima di queste società devono essere state molto più sviluppate di quanto si ritenesse finora. Ciò richiede una radicale rivalutazione degli orizzonti megalitici e invita all’apertura di un nuovo dibattito scientifico riguardante la mobilità marittima e l’organizzazione delle società neolitiche, la natura di queste interazioni nel tempo e l’ascesa della marineria”20.

Insomma questo articolo mette chiaramente in luce il ruolo e l’importanza della navigazione nella diffusione del megalitismo. Essa fu favorita dal fatto che quella era l’epoca dell’Optimum Climatico preistorico, che assicuròper lungo tempo un clima eccezionalmente mite in molte parti del mondo. Non a caso, l’autrice conclude l’abstract del suo articolo con una frase riferita proprio alla straordinaria diffusione dei megaliti: “La spiegazione più probabile della loro espansione è un modello di diffusione marittima”.

Riguardo in particolare alla Francia nord-occidentale, il riferimento è agli allineamenti di Carnac, uno dei complessi megalitici più grandi del mondo, comprendente circa tremila monoliti, sparsi nella campagna bretone: fu qui, infatti, che, come abbiamo appena visto, ebbe origine il megalitismo europeo: “La Francia nordoccidentale è, finora, l’unica regione megalitica in Europa che presenta una sequenza monumentale premegalitica e strutture di transizione ai megaliti, suggerendo che la Francia settentrionale sia la regione d’origine del fenomeno megalitico”.

A questo punto abbiamo tutte le indicazioni necessarie a localizzare quel porto “con uno stretto imbocco”di cui parla Platone. Infatti è proprio nell’area di Carnacche si trova un’entità geografica che corrisponde alle sue indicazioni: è il Golfo del Morbihan, una sorta di mare interno – il cui nome bretone, MorBihan, significa “Mare Piccolo” – esteso su una ventina di chilometri, che attraverso uno stretto passaggio tra Locmariaquere Port-Navalo, largo meno di un chilometro, si apre sulla baia di Quiberon, ossia la parte occidentale del MorBraz, il “Mare Grande”, dove si entra nell’Atlantico (Fig. 1).

Insomma il Golfo del Morbihan, ossia il “Mare Piccolo” con il suo stretto imbocco, corrisponde molto bene alla descrizione che Platone fa del porto da cui in una lontana preistoria partivano le navi dirette verso il continente americano. Non solo: per gli studiosi il Morbihanrappresenta “un punto focale del Neolitico europeo alla metà del V millennio a.C.”21!Per inciso, è stato questo il punto d’arrivo della prima traversata a nuoto dell’Atlantico, compiuta nel 1998 dal francese BenoîtLecomte partendo dal Massachusetts, a conferma del fatto che per attraversare l’Atlantico settentrionale questa scelta è del tutto naturale. Insomma già questi dati ci danno ottime ragioni per supporre che “il porto con una stretta entrata” menzionato da Platone sia identificabile con quel golfo bretone: se poi in quella zona trovassimo qualcosa che sia identificabile con le Colonne d’Ercole una tale ipotesi diventerebbe pressoché certezza.

Ora, attorno al Golfo del Morbihan vi sono numerosissimi monumenti megalitici di ogni tipo: dolmen, grandi tumuli con camere sotterranee, cerchi di pietre emenhir, anche di grandi dimensioni. Ed è proprio in prossimità della “stretta entrata” del Morbihan, a Locmariaquer, che giace in terra, spezzato in quattro tronconi, il menhir più grande d’Europa (20 metri d’altezza per 3 di larghezza e 300 tonnellate di peso): è il Gran Menhir d’Er Grah22, databile attorno alla metà del V millennio a.C., che se fosse ancora in piedi sarebbe alto quanto un palazzo di sei piani. Ma ciò che ce lo rende estremamente interessante sono i risultati degli ultimi scavi archeologici, i quali hanno mostrato che non era affatto isolato: esso invece era il primo, e anche il più grande, di un allineamento di diciannove menhir, in fila uno dietro l’altro, dei quali gli archeologi hanno individuato sul terreno le fosse allineate che anticamente ne alloggiavano le basi.Insomma nei pressi dello “stretto imbocco” del Morbihan, ossia del passaggio dal Mare Piccolo al Mare Grande verso l’oceano Atlantico, nel bel mezzo del più grande e più antico complesso megalitico europeo, in quell’epoca remota si drizzava una straordinaria fila di enormi menhir, dritti e allineati, su una distanza di oltre 55 metri, in direzione nord a partire dalla base del Gran Menhir: ecco le Colonne d’Eracle (Hērakleousstēlai) menzionate da Platone! Si ergevano maestosamente(Fig. 2) presso lo stretto ingresso del Mare Piccolo, come per salutare i marinai in partenza che dalle loro navi le vedevano sfilare, una dopo l’altra, prima di entrare nella baia di Quiberon, dove affrontavano l’immenso oceano, diretti verso il lontano continente citato da Platone e da Plutarco.

L’imponenza di questo gigantesco allineamento ci fa supporre che esso sia stato eretto in memoria di un personaggio eccezionale: sarebbe suggestivo ipotizzare che si trattasse proprio di Ercole, il quale, come abbiamo visto poco fa, secondo Plutarco sarebbe stato il protagonista di una spedizione nel continente oltremare. Notiamo anche che il nome bretone del Menhir Spezzato, Men arHroëc’h (Pietra di Hroëc’h) sembra glottologicamenteaccostabile a quello di Eracle (il che potrebbe forse significare che il suo nome originario fosse “Pietra d’Eracle” e non “Pietra della Fata”, come viene tradotto attualmente). A questo punto, potremmo perfinoazzardarci a supporre che gli altri diciotto menhir fossero il ricordo dei compagni di Eracle in quella spedizione, a cui Plutarco fa esplicito riferimento quando afferma, come abbiamo visto poco fa,che là “riaccesero con una fiamma forte e brillante la scintilla greca”. Per inciso, una possibile conferma della relazione tra uomini e pietre può essere trovata in un campo di menhir a pochi chilometri dal Morbihan, dove si trovano 1029 pietre divise in dieci allineamenti, chiamato Kermario (Casa dei Morti). Essa d’altronde si ritrova paripari proprio nella mitologia greca, secondo cui dopo il Diluvio i due unici sopravvissuti, Deucalione e Pirra, ricostituirono il genere umano lanciando dietro di sé pietre che si trasformarono in uomini e donne. E che dire dei menhir rinvenuti in Sardegna, chiamati “pedrasfittas” (“pietre conficcate” nel terreno), su alcuni dei quali appaiono simboli fallici, mentre altri mostrano seni? Essi sono forse i lontani predecessori dei cippi commemorativi delle epoche successive, fino ai nostri giorni.

Indizi di antiche presenze europee sul continente americano

Torniamo ora al Golfo di Morbihan, dove si trova la città di Vannes, il cui nome deriva dall’antico popolo dei Veneti, che furono sconfitti dalla flotta di Giulio Cesare nel 56 a.C. davanti a Locmariaquer23. I Veneti furono grandi marinai, “superiori a tutti gli altri nell’arte e nella pratica della navigazione”24, e avevano navi formidabili, che Cesare descrive in dettaglio25, capaci di resistere alle tempeste oceaniche. Le enormi dimensioni di queste navi impressionarono anche Plinio il Vecchio, il quale nel secolo successivo scrisse che l’imperatore Claudio celebrò il suo trionfo sui Britanni “su una nave grande quanto un palazzo”26. Ora, è curioso il fatto che dall’altra parte dell’Atlantico, in territorio canadese, vi sia il popolo dei Wendat (comunemente chiamati col nome di Uroni), il cui territorio è chiamato Wendake, provenienti dalla provincia dell’Ontario, collegato all’Atlantico dal fiume San Lorenzo: in qualche vecchia foto (Fig. 3) alcuni di loro sembrano avere una fisionomia che si potrebbe definire “europea”, ma non solo: il loro nome richiama quello dei Veneti.

Che i Wendat siano discendenti di Veneti preistorici che, analogamente ai Greci continentali menzionati da Plutarco, avevano attraversato l’Atlantico partendo dalla Bretagna verso le coste canadesi? Lo si potrebbe verificare con un confronto tra il loro DNA e quello degli attuali abitanti della Vandea.

Inoltre nel Nord Dakota, a ovest dei Grandi Laghi, troviamo il territorio dei Mandan, le cui caratteristiche fisiche – pelle e capelli chiari, occhi blu o grigi – fin dal XVIII secolo suscitarono l’interesse di esploratori e studiosi, al punto che nacque una leggenda che li faceva discendere da Madoc, un re del Galles del XII secolo, e la loro lingua fu accostata al gallese27. È rimarchevole anche il fatto che nel corso della loro cerimonia più importante, chiamata Okipa, essi commemoravano la salvezza della loro tribù, avvenuta per mano divina, da un diluvio primordiale28. Inoltre i Mandan avevano caratteristiche barche rotonde (costituite da pelli di bisonte stese su un’intelaiatura di rami di salice e un fondo piatto che le rendevano ideali per uso fluviale), praticamente identiche ai tradizionali coracle delle Isole Britanniche,tuttora diffusi in Scozia, in Galles, nell’Inghilterra occidentale nonché in Irlanda (dove sono chiamati currach e si ritiene che risalgano addirittura al Neolitico)29.

Osserviamo anche che il nome degli Iowa, poi attribuito ad uno degli Stati Uniti, ben si inserisce in questo quadro, perché sembra ricordare gli omerici Ia(v)ones (cioè gli Ioni greci, nome con cui i Greci venivano spesso chiamati nell’antichità): ora, sembra che gli Iowa siano provenuti dalla regione dei Grandi Laghi. Analogamente, il nome degli Shawnee, nei cui ritratti si ritrovano spesso tratti somatici quasi europei, sembra paragonabile a quello dei Suiones, gli antichi svedesi menzionati da Tacito. E che dire delle ipotesi di Barry Fell, secondo cui molti graffiti rinvenuti nei siti americani sarebbero in realtà testi scritti con antichi alfabeti del Vecchio Mondo, risalenti ad un’epoca precolombiana? In particolare, il Fell ipotizza che i petroglifi di Peterborough – una raccolta di oltre novecento immagini che raffigurano forme umane, sciamani, animali, simboli solari, barche e forme geometriche, scolpite su un grande masso calcareo in un antico sito rituale algonchino nella regione dell’Ontario– siano interpretabili in chiave di rune nordiche (inoltre alcuni di essi sembrano accostabili a certi petroglifi della Valle delle Meraviglie in Francia).

È sorprendente anche la figura di una sorta di “Prometeo nativo americano” tra i Catlo’ltq della Columbia Britannica, sulla costa pacifica del Canada, con caratteristiche tali da far esclamare a Giorgio de Santillana: “Ecco qui un mito greco che improvvisamente emerge in piena luce fra le tribù degli indiani d’America, miracolosamente conservato”30. Più in generale, alcune tribù di nativi americani vedevano nell’Orsa Maggiore un orso; ma, poiché in realtà la forma di questa costellazione di per sé non somiglia a nessun animale, questa strana convergenza, riletta anche alla luce degli altri indizi finora emersi, sembrerebbe attestare antichi legami tra le culture del Vecchio e del Nuovo Mondo.

A questo punto, dopo aver verificato la conoscenza che Platone e Plutarco avevano del continente oltreoceano, viene da chiedersi cosa potrebbe aver spinto antichi navigatori provenienti dall’Europa ad avventurarsi al di là dell’Atlantico. La risposta potrebbe essere legata alle antiche miniere di rame dell’IsleRoyale, una grande isola del Lago Superiore situata davanti alla spondacanadese, dove diversi millenni prima dell’arrivo degli europei i nativi americani estraevano il rame nelle miniere, martellando la roccia per ottenere pezzi di rame puro. Gli archeologi hanno datato il legname di contenimento di diverse gallerie di alcuni siti minerari a circa 5.700 anni fa! Insomma già in una remota preistoria nell’IsleRoyale e nella contigua penisola di Keweenaw venivano estratte grandi quantità di rame, e sembra che al riguardo tra gli abitanti di quei luoghi circolino ancora delle leggende31. Ciò ha dato luogo ad un vivace dibattito tra gli archeologi, perché non si comprende dove sia finita una tale quantità di rame nelle Americhe. A questo proposito, opportuni esami metallografici su esemplari dell’età del bronzo europea, al fine di verificare l’origine del metallo, potrebbero aiutare a risolvere la questione.

A questo punto osserviamo che il nome dato dai nativi all’IsleRoyale, Minong, in molte lingue europee sembra curiosamente ricordarevocaboli quali miniera, minerale, minatore, che a loro volta sembrano essere derivati da un termine celtico32collegato col gaelico mwyn (minerale, metallo): esso potrebbe trovare riscontro anche nel greco mnā, che indica un’unità di peso o una moneta ed è accostabile all’ebraico maneh33. C’è da chiedersi se qui la convergenza tra il vocabolo amerindoMinonge l’idea europea di miniera sia soltanto dovuta al caso, oppure se questo insieme di indizi convergenti sia inquadrabile in una memoria comune di attività minerarie e di scambi tra i due lati dell’Atlantico, con la mediazione di un vocabolo greco o celtico. D’altronde la regione dei Grandi Laghi americani ha per principale sbocco il fiume San Lorenzo, che li collega all’Atlantico sboccando proprio nel golfo dove, secondo Plutarco, vivevano gli “Elleni continentali”.

Insomma questo ipotizzato commercio preistorico di rame dalle miniere di Mining, l’IsleRoyale del Lago Superiore,verso l’Europa potrebbe forse spiegare l’antica presenza europea nel Golfo di San Lorenzo, attestata da Plutarco con quegli sbalorditivi dettagli analizzati in precedenza, nonché la leggenda del mitico Regno di Saguenay34, di cui i primi esploratori francesi del Canada ebbero notizia dal capo irochese Donnacona. Costui parlò di un mitico regno, ricco e sontuoso, di uomini biondi, che esibivano oro e pellicce, in un luogo che essi chiamavano Saguenay. Poco dopo l’esploratore francese Jacques Cartier annunciò la scoperta, avvenuta nel 1536, del fiume Saguenay, affluente di sinistra del San Lorenzo, che secondo i figli di Donnacona era la via d’accesso al regno di Saguenay (che però finora non è stato mai trovato).

Notiamo anche che il nome “Saguenay” è quasi identico a quello del fiume Sequana, l’antico nome della Senna (chiamata Sēkouanos da Strabone e Sēkoanas da Tolomeo). Essosi ritrova anche in altri importanti idronimi del mondo celtico, quali quello della Saona, che deriva da Sauconna, e quello del Sikanos, un fiume su cui, secondo Tucidide, “i Sicani vivevano in Iberia”35prima di spostarsi in Sicilia. Inoltre, la Sequana ha dato origine al nome dei Sequani, un’importante tribù di Galli, citati sia da Cesare che da Strabone; ma essa era anche una divinità guaritrice, alla qualeera dedicato un grande santuario celtico poi rilevato dai Romani, le FontesSequanae (“le sorgenti della Senna”)36. È pertanto naturale supporre che in quella terra lontana, che dava ricchezza e benessere (e che nel Neolitico godeva di un clima eccellente), quegli antichi popoli abbiano tenuto a ricordare il nome del loro fiume e della loro divinità protettrice.D’altronde la memoria di quel mondo perduto al di là dell’oceano sembra essere evocata anche da Seneca (nato 50 anni prima di Plutarco): “Verrà in futuro un’epoca in cui l’Oceano aprirà le barriere del mondo e si scoprirà una terra immensa; Teti rivelerà un nuovo mondo e Thule non sarà più l’ultima terra”37.

D’altronde allora erano molto più agevoli anche le comunicazioni marittime fra l’Atlantico e il Pacifico, poiché il clima, più caldo di quello attuale, rendeva navigabile il Mar Glaciale Artico durante l’estate. Ciò spiega la diffusione planetaria non solo di miti, racconti e leggende comuni al mondo intero, ma anche della civiltà megalitica, il cui ultimo ricordo si ritrova nel mito, trasmessoci da Platone insieme con le Colonne d’Eracle, di una civiltà preistorica globale basata sulla navigazione, come abbiamo visto in un precedente articolo in cui abbiamo verificato la plausibilità dell’ipotesi che i Campi Elisi della mitologia classica siano localizzabili in un’isola della Polinesia38.

Conclusioni

All’inizio di questo articolo abbiamo visto che sia Plutarco che Platone parlano del continente situato al di là dell’Atlantico. Ma i loro punti di vista sono piuttosto diversi e in certo senso  complementari: Plutarco inizia il suo discorso su questo argomento menzionando l’Ogigiaomerica e altre “tre isole”, situate ad un’alta latitudine, a cui corrispondono le isole intermedie menzionate da Platone. Successivamente Plutarco descrive il golfo canadese del San Lorenzo, riguardo a cui segnala correttamente che si trova alla stessa latitudine dello sbocco del Volga nel Caspio, per poi dilungarsi sui “Greci continentali”, legati alla figure di Crono e di Eracle, che colà vivevano. Invece Platone – di cui colpisce l’assoluta certezza dell’esistenza di un continente al di là dell’oceano – si sofferma sul porto di partenza della rotta transatlantica, caratterizzato dal suo “stretto imbocco” e dalle Colonne d’Ercole. A questo punto, avvalendoci di un recente studio sul megalitismo europeoci è stato agevole identificare quel porto con il Golfo del Morbihan, nei pressi del sito megalitico di Carnac, come conferma la presenza in tempi antichi di un monumentale allineamento di diciannove giganteschi menhir, a partire dal Gran Menhir d’ErGrah, in corrispondenza con il suo “stretto ingresso” a Locmariaquer: sonole Colonne d’Ercole segnalate da Platone.Ciò rafforza anche l’attendibilità di quanto tramandato da Plutarco, con il suo racconto sui “Greci continentali”, riguardo ai quali non mancano le conferme che ci arrivano dagli stessi nativi americani, che rappresenta con ogni probabilità l’ultima testimonianza, miracolosamente sopravvissuta ai millenni, di insediamenti preistorici di coloni europei che si stabilirono ​​nel continente americano durante l’optimum climatico preistorico, quando la civiltà megalitica raggiunse il suo apice. E un discorso analogo vale anche per il controverso racconto diPlatone sulla civiltà di Atlantide, sviluppato con molti dettagli nel dialogo Crizia. Ma, più in generale, questi argomenti richiederanno ulteriori studi e approfondimenti, che in prospettiva potranno gettare una nuova luce sulla preistoria, ancora troppo poco conosciuta, del genere umano.

(Il testo originale in inglese è leggibile sul sitohttps://lupinepublishers.com/anthropological-and-archaeological-sciences/pdf/JAAS.MS.ID.000314.pdf)

Riferimenti

1. Plut. De Fac. 941a-b.

2. Plut. De Fac. 941d.

3. Il Periodo Caldo Medievale (MWP) durò all’incirca dal IX al XIII secolo, quando il ghiaccio polare si ritirò e gli iceberg quasi scomparvero. Cfr. Mann M et al. (2009) Global Signatures and Dynamical Origins of the Little Ice Age and Medieval Climate Anomaly. Science 326 (5957): 1256-1260.

4. Vinci F (2017) The Nordic Origins of the Iliad and Odyssey: an up-to-date survey of the theory. Athens Journal of Mediterranean Studies 3(2): 163-186.

5. Plut. De Fac. 941 a-c. La Meotide è l’attuale Mar d’Azov (la cui estensione, come afferma Plutarco, è effettivamente minore di quella del Golfo di San Lorenzo).

6. La straordinaria conoscenza della geografia di Plutarco è attestata anche dalla sua affermazione che la distanza dalla Luna alla Terra è “cinquantasei volte maggiore del raggio della Terra” (De Fac. 925d). Infatti, moltiplicando il raggio medio della Terra (6.371 km) per 56, otteniamo una distanza Terra-Luna di 356.776 km, mentre la distanza effettiva della Luna dalla Terra al perigeo è di 356.500 km.

7. Otte M (2008) La protohistoire. De Boeck, Bruxelles, pag. 11.

8. Ad esempio, nel Dicksonfjord, un ramo del fiordo dell’Isfjorden presso Spitsbergen, è stata riscontrata una temperatura media di +6°C rispetto a quella attuale. Cfr. Beierlein L, Salvigsen O, Schöne B, Mackensen A, Brey T (2015) The seasonal water temperature cycle in the Arctic Dicksonfjord (Svalbard) during the Holocene Climate Optimum derived from subfossil Arctica islandica shells, The Holocene 25 (8): 1197- 1207.

9. Diod. Bibl. Stor. I, 27.

10. Plut. De Fac. 941c.

11. Secondo Omero, Ulisse, dopo le sue avventure successive alla guerra di Troia, arrivò all’isola Ogigia (Od. XII, 448), da dove poi salpò per raggiungere, dopo un lunghissimo viaggio verso est, la terra dei Feaci , chelo accompagnarono a Itaca. Questa collocazione nordatlantica di Ogigia è stata il punto di partenza dello studio con il quale abbiamo ricollocato l’intero mondo omerico nell’Europa settentrionale, in un’epoca precedente alla discesa degli Achei nel Mediterraneo, risolvendo in tal modo sia tutte le innumerevoli incongruenze geografiche, sia gli attuali problemi di inquadramento temporale dei poemi omerici. Cfr. Vinci F (2021) I segreti di Omero nel Baltico, LEG, Gorizia.

12. Tac. Germ. 3, 2. “Germania” è il nome con cui Tacito chiamò l’Europa settentrionale fino al Baltico.

13. Tac. Germ. 34, 2. “Ercole” è il nome latino dell’eroe mitico chiamato Eracle in greco.

14. Plin. Olimp. 3, 16.

15. Hitti P (1957) Lebanon In History from the Earliest Times to the Present, Macmillan, New York, p. 118.

16. Plat. Tim. 24e-25a.

17. I tre avverbi greci consecutivi: pantelôs (certamente),alēthôs (veramente),orthōtata (correttissimamente) stano ad attestare quanto Platone fosse certo dell’esistenza di un continente al di là dell’oceano!

18. Turolla E (a cura di), I Dialoghi di Platone vol. 3, 1964, Rizzoli, Milano, p. 142.

19. Vinci F (2020) I Misteri della Civiltà Megalitica. LEG, Gorizia, pp. 170-176. La questione è lunga e complessa; tra le ragioni a sostegno di questa identificazione– cfr. Goti M (2017) Atlantide: mistero svelato, Pendragon, Bologna – qui ci limitiamo a osservare che la peculiare morfologia di Atlantide, descritta da Platone nel Criziacome un’isola molto grande con una vasta pianura centrale circondata da montagne altissime, effettivamente corrisponde a quella della Groenlandia. Ciò spiega perché gli Atlantidei costruirono un sistema di enormi canali (Crizia 118d): dovevano drenare l’acqua di disgelo che scendeva dalle montagne circostanti durante la stagione estiva, per evitare disastrose inondazioni. Fa riflettere anche la somiglianza tra il profilo costiero della Groenlandia e la mappa di Atlantide (1669) di A. Kircher.

20. Schulz Paulsson B (2019) Radiocarbon dates and Bayesian modeling support maritime diffusion model for megaliths in Europe, in PNAS, vol. 116/9/3465 (https://doi.org/10.1073/pnas.1813268116).

21. Cassen S, Rodríguez-Rellán C, Valcarce R F, Grimaud V, Pailler Y, Schulz Paulsson B (2019) Real and ideal European maritime transfers along the Atlantic coast during the Neolithic. Documenta Praehistorica, XLVI: 308-325.

22. Le Roux C, Gaumé E, Lecerf Y, Tinevez J-Y (2007) Monuments mégalithiques à Locmariaquer (Morbihan): Le long tumulus d’Er Grah dans son environnement. CNRS, Parigi.

23. Cameron Watt D (1989) The Veneti: A Pre-Roman Atlantic Sea Power. Naval History Magazine, vol. 3 N. 2: 53-59. Qui ovviamente ci riferiamo ai Veneti oceanici (che secondo Strabone avevano una comune ascendenza con i Veneti dell’Adriatico).

24. Caes. B. Gall. 3, 8.

25. Caes. B. Gall. 3, 13.

26. Plin. Nat.Hist. 3, 119.

27. Chafe W (1976) The Caddoan, Iroquoian, and Siouan languages. De Gruyter Mouton, L’Aia, pp. 37-38.

28. Fenn E (2014) Encounters at the Heart of the World: A History of the Mandan People. Hill & Wang, New York.

29. Hornell J (1938) British Coracles and Irish Curragh: with a note on the Quffah of Iraq. Quaritch, Londra.

30. De Santillana G, Von Dechend H (2003) Il mulino di Amleto. Adelphi, Milano, p. 368.

31. Griffin J (1961) Lake Superior copper and the Indians: miscellaneous studies of Great Lakes prehistory. University of Michigan, AnnArbor.

32. Cfr. l’irlandese “mein”, il gallese “mwyn”, ore, mine”. Collins English Dictionary (1998), HarperCollins, Glasgow, voce “mine”.

33. Lorenzo Rocci (1998) Dizionario greco-italiano Rocci. Dante Alighieri, Roma, voce “mnâ”.

34. King J E (1950) The Glorious Kingdom of Saguenay.Canadian Historical Review, University of Toronto Press, vol. 31, n. 4: 390-400.

35. Giov. 6, 2. Il fiume Sikanos è stato identificato con l’attuale Júcar, che sfocia nel Golfo di Valencia, situato nei pressi della città di Sueca nel territorio degli antichi Celtiberi.

36. MacKillop J (2004) A Dictionary of Celtic Mythology.Oxford University Press, Oxford.

37. “Venientannis saecula seris,/ quibusOceanus vincula rerum/ laxet et ingenspateattellus/ Tethysquenovosdetegatorbes/ nec sit terris ultima Thule” (Sen. Med. 375-379).

38. Vinci F, Maiuri A (2023) Some Striking Indications that the Mythical Elysian Fields Were in Polynesia. Athens Journal of Mediterranean Studies 9(2): 85-96.

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